Posts written by western nights

  1. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    neutral
    rebel
    chouko
    javier
    addio, danny.
    «sto bene»
    grattò l’indice contro la tempia, e si ritrovò di nuovo a premere i denti contro la lingua per fermarsi dal dire la cosa sbagliata. perché lo sapeva, javi, che non era ciò di cui mireia aveva bisogno in quel momento. era un discorso che lui e suo padre avevano affrontato più volte sul ciglio del divano — uno con lo sguardo rivolto alle converse rotte, l’altro intento a fissarlo con quella gentilezza che portava lo stampino iglesias. solido nella sua tenerezza, anche nei momenti in cui il vizio di agire prima, pensare dopo aveva reso javier un ragazzo fottutamente difficile da sopportare. un continuo di non devi sentirti in obbligo di sostituirmi. non glie lo aveva mai detto che non ne sarebbe stato in grado in ogni caso; che non era fatto, javier, per accudire e insegnare. quelle erano conclusioni a cui era giunto da solo sbattendoci la testa un paio di volte di troppo, anche se saperlo non aveva mai veramente soppresso la sua vena protettiva. e usciva quando avrebbe dovuto tenersela per sé — cioè sempre — e nel modo peggiore — l’unico che la sua mente era in grado di manifestare, e di cui finiva costantemente per pentirsi.
    non era decisamente il caso di mettere pausa a un combattimento per arricciare il labbro e dirle che non le credeva. potevano vederle entrambi, quelle ferite. mira le sentiva bruciare sulla sua stessa pelle. doveva starsi zitto, cristo.
    anche perché quando sollevò lo sguardo su di lei, e la sentì pronunciare quel «mi sei mancato», qualunque cosa pregasse di uscirgli dalla bocca gli morì in gola. era solo… così dannatamente strano, dover conciliare l’immagine di donna adulta a quella di sua sorella. l’aveva vista crescere. l’aveva vista muovere i suoi primi passi nel mondo. ed era così fuori dal suo controllo, ormai, che non sapeva neanche dove mettere mano per evitare di vederla in quelle condizioni. non poteva, fermarla dal farsi male.
    annuì scattosamente, e avvicinò un palmo al suo polso; stringendolo piano, perché essere presente quando doveva rialzarsi, invece, gli era concesso.
    «andiamocene di qui.»
    non più un desiderio, ma una certezza che si concretizzava di fronte ai suoi occhi. distante tanto quanto lo era ethos dalla canna del suo fucile — e sperava sarebbe bastato, perché si era separato dal gruppo nell’interrato con la promessa di ritrovarli il prima possibile e aveva intenzione di mantenerla. la shevchenko, poco ma sicuro, si stava assicurando che l’altro lato del patto andasse a buon fine.
    e quindi.
    davvero ultimo stronzo del villaggio.
    che avrebbe tranquillamente steso con una pallottola nel cranio, insomma, ma nulla era mai così semplice.
    sospiro.
    bestemmia.
    sospiro.
    bestemmia.
    il decoro non era più un’opzione in quel di sala da ballo. ok, moka.
    «lo faccio lo stesso.»
    scostò mina e wren dalla traiettoria della mazza, e
    .
    ma
    porca
    «va bene.»
    e lo fece. con la ciliegia dell’ak47 a premere contro la tempia dell’uomo, e lo sguardo a sfiorare quello di moka telly. sempre in mezzo ai coglioni.
    «basta che fai silenzio.»
    @ il telly, perché se ethos voleva lanciare una preghierina chi era lui per negargliela. citando una saggia: con calma. un bacio al cielo.
    e sparò.
    addio.
    Ma l’amaro torna Ed è la prima volta
    La vita che mi togli Passa dalle mani
    Ma tu già lo sai Che io non sarò mai
    Un porto sicuro In un mare calmo


    (3) DIFESA MINA (javi + yejun + moka): la sposta
    (6) DIFESA WREN (javi + ellis): LO! sposta
    ATTACCO ETHOS (ellis + yejun + javi + moka): bang
  2. .
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    chouko
    javier
    era un po’ che javi non sentiva i pugni prudere così insistentemente.
    il primo giorno non si era fatto domande. il secondo aveva stretto il muso di dante tra le dita, aveva affondato il volto nel pelo del cane, e si era imposto di non farsene ancora. il terzo, aveva fissato lo schermo del telefono — tutti quei messaggi privi di una risposta, mai ricevuti — e si era chiesto se fosse il caso di cambiare tattica. aveva sfiorato col dito il contatto di william barrow, e poi aveva cambiato idea.
    era una coincidenza, e andava tutto bene.
    al sesto twat aveva battuto violentemente piede nel suo appartamento, un lecito mi sono rotto il cazzo come forma di saluto, e lui gli aveva piazzato una birra tra le mani. incapace di fare altro, se non osservarlo da dietro ai cuscini del divano mentre gli veniva detto — a lui — di restare fermo. mentre twat — twat — andava a recuperare chissà cosa, chissà dove.
    giunti al decimo, voleva solo spezzare qualcosa. di pensieri, nella sua mente, ne erano frullati parecchi; nessuno particolarmente positivo. ne fosse stato in grado avrebbe persino riso, quando avevano riunito le forze e si era ritrovato di fronte alle stesse facce che lo avevano affiancato in siberia. niente olga, ma quello non lo aveva particolarmente sorpreso. però la mancanza di moka a sfiorargli le dita, sempre più vicino di quanto fosse consentito, era stata una doccia fredda. e ci aveva provato, javi, a non rendere palesi le immagini che continuavano a presentarsi dietro alle palpebre. non era certo di esserne stato del tutto capace, in quegli attimi precedenti all’ingresso in struttura. occhi scavati, assenti; labbra bluastre, arti rigidi. questo quando si concedeva di intrattenere l’idea che ci fossero ancora resti da riportare a casa. e quando l’olezzo della carne bruciata, spettro del novosibirsk, non tornava a infestargli le narici.
    strinse le labbra in una linea retta, e posò lo sguardo su wind. e finì per cadergli anche sull’hastings, un’altra serie di ricordi vaghi a stringergli la gola. fu istintivo battere le nocche contro la sua spalla, mormorare uno «stai bene?» — un anno dopo, e la fine di quella guerra era ancora pesante sulle spalle di javi. un’altra serie di sagome anonime da inserire nella lunga lista di quelle che lo perseguitavano. e non lo conosceva abbastanza, wren, ma cristo iddio. cristo, se meritava di non vedere più le sue stesse mani imbrattate del sangue altrui. non in quel modo; mai in quel modo.
    certo, e poi imbracciò il fucile; fece quei passi in avanti, i pensieri rivolti ancora al gruppo di volontari separato dal suo — e li vide davvero.
    non tutti. distolse gli occhi da quelli di diaz, ironicamente primo a catturare la sua attenzione, e contò uno ad uno i presenti nella manciata di secondi a disposizione. un autocontrollo che aveva poco di naturale; figlio, piuttosto, dell’addestramento rigido che gli aveva concesso di mantenere lucidità in situazioni peggiori di quella. ne mancavano svariati, all’appello. ne era certo, perché tra le teste non riconosceva quelle di marcus howl e sinclair hansen.
    (hansen con la a, per i posteri.)
    non si concesse di ragionare troppo su qualunque cosa stesse vedendo. anche se finì lo stesso per perdere più tempo del necessario a fissare le manette che univano mireia al suo fottutissimo amico. e sulle dita rotte e sanguinanti di sua sorella.
    e di nuovo, pensa il caso!, su diaz.
    stavolta, le iridi scure erano pregne di emozioni in contrasto con quelle mostrate poco prima; non c’era davvero bisogno che lo dicesse ad alta voce, quel te voy a matar. abbastanza certo si percepisse già nell’aria.
    piuttosto spinse il calcio del fucile verso il fianco di (checks notes) GHALI????&& ghali. con l’intento di fargli quantomeno arrestare l’avanzata. già troppo vicini rispetto allo stretto necessario, ma aveva da tempo smesso di farsi domande sulle scelte strategiche dubbie della popolazione magica. tanto che non batté cigliò manco di fronte all’improvvisa presenza di catene pericolosamente vicine al suo braccio; chouko mizumaki, per quel poco che ne sapeva, era un altro soggetto tutto particolare. lo aveva capito nel momento in cui si era presentata con un sorriso nervoso stampato in faccia ed entrambe le mani strette attorno a quello che pareva a tutti gli effetti uno strumento di tortura medievale. e ne stava avendo la conferma in quel momento, mentre tentava di scostarsi prima che la palla micidiale della ragazzina potesse impattare contro la sua, di testa, invece di quella del nemico.
    e allora. allora, con un sospiro a smuovergli il petto, cedette alla tentazione di cercare moka nella folla. quell’emerito coglione; lui e le sue scariche elettriche che quasi non lo avevano fatto fuori più volte di quanto gli piacesse ammettere. lui e le sue cazzo di sparizioni immotivate, e — corrugò la fronte.
    assottigliò lo sguardo.
    piegò appena il volto nella sua direzione.
    quasi effetto collaterale, la confusione che tramandò telepaticamente al tipo di passaggio. perché aveva un po’ di punti da sollevare, javier. iniziavano tutti con la bandiera americana drappeggiata sulla sua figura, e finivano con il genere di bestemmie sottovoce che il telly era solito tirargli fuori.
    ma perché.
    ma perché.
    «sentite.» e batté le palpebre, cercando di scacciare quell’immagine frutto, evidentemente, di strane fantasie del subconscio. «è troppo presto per pentirmi di essere qui?»
    (no.)
    Ma l’amaro torna Ed è la prima volta
    La vita che mi togli Passa dalle mani
    Ma tu già lo sai Che io non sarò mai
    Un porto sicuro In un mare calmo


    (14) DIFESA GREY (giacomino + javi): calcio del fucile nel fianco per destabilizzarlo
    ATTACCO GHALI (chouko): mazzata in testa

    (19) DIFESA ELLIS (javi + mina ): gli passa un po’ di sana confusione telepatica
  3. .
    sospiro bestemmia sospiro bestemmia sospiro bestemmia
    ho ascoltato un paio di volte di troppo questa canzone, mannaggia moka, hai vinto ORA BASTA PERSEGUITARMI PERò

    è un po' nsfw. ma poco, dai


    javier iglesias mendoza
    If only I could sustain my anger
    Feel it grow stronger and stronger
    It sharpens to a point and sheds my skin
    Shakes off the weight of my sins And takes me to heaven
    dovette ingoiare la necessità di schiacciargli i polpastrelli contro la cassa toracica e soffiare stronzo contro la sua bocca. di scuse per farlo ce n’erano anche troppe.
    in che posizione lo stava mettendo, in primis. quasi in ginocchio per un ragazzino con il temperamento caldo; in certi au molto specifici ci era pure già stato, ma non siamo qui per discutere di questo, in effetti.
    più della facilità con cui riusciva a insidiarsi sotto alla sua pelle. affascinante e terribile al contempo; non era la prima volta che gli succedeva, eppure non smetteva mai di essere assurdo. colpa sua, che con i giusti input si lasciava consumare. colpa di moka, che molto evidentemente li aveva scoperti tutti e li sfruttava a suo piacimento.
    come se avesse davvero qualcosa da spiegargli, poi. ma di nuovo, scelse di cogliere le sfumature di quelle poche parole e di spingere il dito contro i denti dell’altro: una lieve concessione, che a sua volta aveva i suoi significati persi tra le righe. sapeva di aver spinto oltre ogni suo limite, e poteva farsi bastare quelle vaghe premesse. non aveva nulla di solido da offrirgli, dopotutto, se non un torace solido contro cui premere il corpo. al resto potevano pensarci in un momento imprecisato del futuro – sempre se, di nuovo, moka non si rompeva il cazzo prima. troppa esperienza passata per lasciarsi accecare in quel modo. ma non era il caso di dirglielo, che lui ne fosse ancora fermamente convinto. sarebbero state in ogni caso parole vuote: difficile tirare fuori un discorso con un nesso, con il peso del suo palmo a spingere contro le linee dei suoi muscoli.
    e quella volta glie lo concesse davvero. con un sopracciglio inarcato e lo sguardo a percorrere languido il movimento, poi a cercare nuovamente quello di moka. eh, stronzo davvero.
    ok. cit.
    di nuovo, potevano venirsi incontro. e glie lo dimostrò lasciandosi guidare fino alla fine; permettendogli di chiudere la distanza senza imporsi per primo, e accogliendo un ritmo dettato unicamente da moka. uno sforzo maggiore di quanto potesse sembrare – mesi a girarsi attorno, e il risultato era esattamente quello. in sua difesa non aveva immaginato che avrebbe occupato ogni suo fottuto spazio fisico e mentale nel giro di qualche mese.
    e infatti non poté respingere l’istinto di trascinare la mano libera contro il suo zigomo, carezzare la pelle rovente, inclinare ulteriormente il suo volto per rendere la vicinanza ancora più opprimente. la conosceva bene, quella sensazione; e aveva imparato a conoscerla anche moka, ogni volta che i suoi momenti di debolezza si facevano particolarmente problematici e invece di fare il cazzo di adulto spingeva la lingua nel suo palato. non poteva più mentire a se stesso e dirsi che quel contatto non gli mancasse quando se ne privava; non quando lo cercava con il genere di devozione che sua madre sperava di vedergli praticare di fronte a un altare. così tipica di javier, quella tendenza a trovare del sacro nel sapore degli altri.
    «vuoi che ti spieghi» e spinse un bacio contro le sue labbra socchiuse, l’indice a carezzare sotto l’elastico – lì dove moka, molto gentilmente, aveva scelto di piazzarlo. sembrava quasi in controllo, javi. respiri erratici e occhi così scuri da brillare a parte. «o che ti dimostri?»
    sospettava qualcosa di più vicino alla seconda, ma gli diede comunque il tempo per una risposta; affondando la mano, millimetro dopo millimetro, sotto la stoffa. lento e punitivo, tanto che colse sotto le unghie le linee dell’inguine – e poi salì nuovamente, graffiando la pelle fino allo sterno. solo perché era disposto a dargli corda non significava che approvasse dei suoi metodi. se voleva essere divorato, moka telly, aveva scelto la persona sbagliata. javi preferiva macchiare qualunque cosa toccasse. una fottuta maledizione; qualcosa che era stato dal primo momento in cui moka aveva posato lo sguardo su di lui con l’innocenza di chi, al massimo, si aspetta un’occhiata di troppo. e non necessariamente il genere di terremoto dell’iglesias-mendoza.
    sorrise, perché potevano essere stronzi entrambi, e ruppe il contatto per passare ciascun dito sulla superficie ruvida della lingua con quel genere di indecenza metodica che poteva essere intesa solo in un modo. non gli interessava davvero di ciò che avesse da dirgli, in quel momento – voleva solo che moka ricambiasse con un po’ di sana obbedienza. provocazione per provocazione. tanto che poi, alla fine, accontentò entrambi: soffiando baci contro la sua mandibola e premendo appena i denti contro il lobo, e spingendo nuovamente la mano tra le sue gambe. sfiorando la lunghezza, e accogliendola decisivamente nel palmo.
    amen.
    «ce lo hai un letto, moka telly?»
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    1986
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    javier iglesias mendoza
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    ironicamente, la sensazione era quella di star scuotendo un osso di fronte a un cane coi denti scoperti. ironicamente perché era un ruolo in cui si rivedeva lui, di solito; e se non era sempre terribile come la prima volta, scoprirsi riflesso nel telly. un reminder tutto fuorché gentile: lo stesso che gli aveva fatto fare svariati passi indietro in passato, e che anche in quel momento stava svolgendo correttamente il suo ruolo di schiaffo in faccia.
    strinse i denti, e lo seguì nei movimenti con occhi severi che, infondo, non necessitavano davvero di essere accompagnati da una risposta a quella chiara provocazione.
    quelle, provocazioni.
    se lo impose. roteò le spalle fino a drizzare la schiena, assottigliò lo sguardo, e spinse giù l’istinto di accogliere quella vicinanza nell’unico modo in cui era in grado di riceverla – allungando le braccia, stringendolo a sé, fottendosi da solo. eh.
    «lo capisci cosa voglio dire, javi?»
    riempì lentamente i polmoni d’aria, e la rilasciò in respiri calcolati. il momento peggiore per realizzare che quella risposta non voleva davvero sentirla, perché complicava un po’ tutto. se era stato difficile mettere una giusta distanza tra il groviglio insensato di emozioni che aveva provato tra le mura di… decisamente troppe stanze, in troppe occasioni, per trascinarsi a forza nel qui-ora degno del ruolo che aveva scelto lui stesso – a quel punto, gli risultava al limite dell’impossibile. e quindi invece di fare la cosa sensata e coerente di spingerlo via, dirgli di usare le sue parole, da bravo, senza tutti quei giochetti del cazzo, strinse quasi inconsciamente una mano attorno al suo braccio. quello che l’infame bastardo stava usando per toccare dove non gli era permesso, e con la debolezza di chi non voleva arrestare; al massimo ancorarsi a qualcosa, perché cristo. cristo, se non si sentiva sull’orlo della pazzia, javi. di nuovo intrappolato tra un corpo così caldo da scottare la pelle nei punti di contatto e il freddo dell’ennesima superficie; non era più certo dove finissero i brividi di freddo, dove iniziassero quelli provocati da moka. avrebbe proprio voluto dirgli che era uno stronzo, ma non si fidò della sua stessa bocca. aveva già fatto i suoi danni.
    invece inclinò il volto verso l’alto, concedendogli più spazio di manovra e rivolgendo le palpebre pesanti al soffitto di quel fottuto appartamento infernale. una mosca in un barattolo.
    eppure, a pratica archiviata, invece di sentirsi sollevato non poté respingere un sorriso amaro; uno sbuffo soffiato contro le sue labbra prima ancora che potesse staccarsi del tutto. almeno con gli ultimi vestigi di autocontrollo che gli rimanevano si fermò dal rincorrere quell’improvvisa mancanza. non il massimo se vuoi essere preso sul serio.
    non voglio che tu te ne vada, cit.
    «eppure» schioccò la lingua contro il palato, e riportò gli occhi su di lui. «guarda come ti allontani.»
    si era, come dire. rotto abbastanza il cazzo di danzargli attorno, javi. un sentimento che sapeva fosse condiviso; e quindi, invece di nascondersi o eliminare nuovamente la distanza, rimase immobile ad appendere un’ascia che troppo metaforica non era.
    «ma se non vuoi rimanere, javi, questo è il momento giusto per andartene»
    annuì piano. poi premette l’indice contro un angolo della bocca, l’altra mano a tenere il gomito: l’immagine dell’attenta riflessione. come se davvero ce ne fossero di opzioni da considerare. si diede comunque il tempo di girare e rigirare le sue parole nella mente, casomai il suo cervello decidesse di sorprenderlo.
    sapeva due cose, d’altronde: che la scelta migliore sarebbe stata prendere la palla al balzo, vederla come la via d’uscita che era e chiudere lì la questione. non era certo moka se la meritasse, ma era la soluzione meno problematica. e sapeva anche di averci provato un quantitativo francamente imbarazzante di volte, javi, a diventare il genere di persona che in situazioni simili faceva più che considerare passivamente la scelta migliore, prima di buttarsi su quella più stupida.
    «va bene.» strinse le labbra in una linea retta, lasciando che la mano scivolasse inerme al suo fianco. va bene, ma non andava bene un cazzo. classico. «quando arriverà il giorno in cui me lo rinfaccerai, ricorda sempre che io ci ho provato.»
    parecchio, pure. il sorriso, allora, si fece sincero. una piega divertita ad alleggerire un pensiero dolorosamente vero; quando, e non se. vista l’esperienza poteva persino supporre le tempistiche. un paio di mesi a essere generosi, via.
    in mancanza di scuse o difese, citazione casuale, si concesse pure di allungare il palmo verso di lui – spianarlo sul fianco di moka, prima di stringere la stoffa tra le dita e trascinarlo di nuovo nel suo spazio personale. «chiaro?»
    suonava come una minaccia, e forse un po’ lo era. lasciò scorrere le dita fino a stringere il braccio attorno ai suoi fianchi, farlo aderire perfettamente al suo petto; da così vicino era difficile anche solo ricordare perché non lo avesse fatto subito. con la mente dolcemente offuscata dall’alcol – quello che aveva bevuto, e quello che aveva saggiato dalle labbra di moka –, e il peso dei muscoli sotto i polpastrelli. pericoloso; tanto quanto era stata pericolosa l’adrenalina che gli era scorsa nelle vene in siberia, nel peggior momento possibile. la differenza stava nelle circostanze: tante da perdere, allora. ma in quell’attimo? in quel contesto?
    portò l’altra mano sul suo viso. una carezza leggera fino al mento, che raccolse tra pollice e indice. avrebbe potuto baciarlo. davvero, stavolta: stringergli la nuca e prendere, prendere, prendere. ma infondo quella loro altalena di cause e conseguenze gli piaceva. offrirsi e lasciare che moka cogliesse i pezzi, li rimettesse al loro posto, era un linguaggio di gran lunga più efficace di quello verbale. potevano lavorarci sopra.
    e quindi, a un palmo dalla sua bocca, invece di affondare i denti nella carne lasciò mischiare i loro respiri. «non me ne vado da nessuna parte, a meno che tu non me lo chieda.»
    la sua causa. sfiorò le sue labbra col pollice, e spinse la fronte contro quella di moka, in attesa di una conseguenza.
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    javier iglesias mendoza
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    e il vaffanculo, preciso come un orologio svizzero, era arrivato.
    avrebbe riso, javi, se ogni muscolo del suo corpo non fosse teso al punto da renderlo immobile. una statua greca all’incirca dal momento in cui gli aveva detto, semicit, che la sua traduzione facesse schifo. non aveva fatto altro che peggiorare; tendine dopo tendine, parola dopo parola. battendo le ciglia solo all’improvviso peso sulla mano, e a quel contatto concesse uno sguardo fugace; di nuovo preso contropiede da un gesto in totale dissonanza con all’incirca tutto il resto. perché riportando gli occhi nei suoi non lesse alcun tipo di tenerezza – solo altra stanchezza a colorargli la pelle, e la solita fiamma cautamente placida che era divertente solo quando non si scontrava con la sua. una brutta accoppiata, senza ombra di dubbio.
    «e non è che non ci abbia provato, a sbatterti fuori»
    premette la lingua contro i denti, e si risparmiò il commento. uno che sarebbe stato ricevuto male, ma che come consiglio spassionato aveva il suo senso: forse dovresti provarci meglio. c’era poco da perdere, d’altronde; tanto da guadagnare. il problema alla base di tutto, ovviamente, era proprio che non fosse così facile. poteva spingerlo fuori dalla sua vita e javi glie lo avrebbe concesso senza combattere. ma sarebbe comunque sgusciato in ogni fottuto luogo e lago, valerio scanu di noialtri. una di quelle cose che si era accuratamente evitato per anni scegliendo strade più semplici: sconosciuti per il tempo di una notte, e arrivederci, a mai più. troppo uniti, i loro mondi, per permetterglielo. e troppo impulsivo, moka, per concedergli di fare l’adulto in grado di tenere i problemi personali lontani dal campo da guerra. troppo distraente, con quello sguardo che finiva inevitabilmente per cercarlo e trovarlo. e troppo stupido, javi, per rispondere con dell’impassibile professionalità per più di dieci minuti. ci aveva provato; ed eccoli, i risultati.
    or lack thereof.
    lo guardò appoggiare la birra sul tavolino. e ancora, sguardo assottigliato mentre prendeva nota della tequila tra le mani dell’altro. cristo, se era testardo. si mosse solo allora: trascinando pollice ed indice contro la radice nasale e spingendo i polpastrelli contro l’osso per scacciare il mal di testa in rapido approccio.
    «qualunque cosa sia, mi passerà»
    sbuffò, un sorriso amaro a curvargli le labbra. qualunque cosa sia? e lui che pensava nessuno potesse prendersi il primato del kinsley in fatto di soppressione dei sentimenti. s’imparavano cose nuove ogni giorno.
    roteò il capo nella sua direzione, e annuì.
    «mi pare un ottimo piano.» grattò l’indice contro l’estremità della bocca, prima di affondare le dita nel mazzo di chiavi; le iridi scure fisse sul metallo mentre poggiava nuovamente la schiena contro il piano della cucina. avrebbe potuto seguirlo, ma si sentiva più a suo agio in quella terra di mezzo. pronto a scattare via se solo moka glie l’avesse chiesto. più di una volta, quantomeno: avevano ancora qualcosa da dirsi. dieci minuti, massimo venti. certo.
    «se non fosse che mi stai dicendo solo quello che pensi io voglia sentirmi dire.» sfiorò le chiavi di casa, quelle della moto; e quelle di un appartamento che aveva da tempo cambiato la serratura e trovato nuovi residenti. niente più che un accessorio, ormai.
    «o sto di nuovo sbagliando traduzione?»
    gli rivolse l’ennesimo sorriso. da dietro alle ciglia, beffardo. la presa per il culo, tanto, era per entrambi: poteva dire di essere cosciente del suo status di emerito deficiente, javier. una grande qualità che lo aveva contraddistinto per tutta la sua vita.
    «non ti piace parlare.» un’affermazione, e non una domanda. un’altra cosa che doveva essere ovvia a tutti e due. alla fine di quella birra abbandonata se ne appropriò una volta per tutte; dando un’occhiata distratta al liquido rimanente prima di buttarlo giù in un sorso lungo e lento. per concedersi un’altra pausa dal ceruleo di moka, nonostante se lo sentisse bruciare addosso. era un contrasto interessante, il suo: quello di una persona che detestava il confronto con ogni fibra del suo corpo, ma che al contempo non era in grado di sfuggirgli. perché non poteva concederselo, o perché era una reazione automatica: questo javi non poteva saperlo. ma voleva scoprirlo. e se non era una realizzazione terrificante, quella. mai una persona ben aggiustata che mettesse le pezze alle sue mancanze. sempre caso umano che attraeva caso umano. le leggi dell’universo, quelle emerite stronze.
    «o meglio,» rincorse le ultime gocce di birra umettando le labbra, e piegò il volto sulla spalla. «non ti piace farlo quando l’argomento sei te. almeno finché non è qualcosa di superficiale. il rischio è essere conosciuti, no?»
    a quel punto, la domanda era lecita. una che gli aveva già posto in passato – in un luogo che non avrebbero più rivisto. «ti faccio così paura?»
    non che si aspettasse una risposta sincera, javi. dopotutto prediligeva per il sì, e non era manco certo che moka fosse in grado di ammetterlo a se stesso. un lupo cattivo tutto speciale che da lui non sapeva farsi bastare qualche bacio rubato. e tutto il resto.
    «credevo che da me volessi solo una distrazione. mi hai detto che non ci ho capito un cazzo.» si strinse nelle spalle, e afferrò con più forza il collo della bottiglia. avrebbe fatto di tutto per una sigaretta, in quel momento; sentiva i palmi prudergli con la tasca della giacca così vicina. accenderla sarebbe significato concedersi minuti in più che sapeva avrebbe comunque passato in sua presenza, ma farlo avrebbe concretizzato quel dato di fatto. gli piaceva convincersi di avere la situazione sotto controllo.
    «e quindi cosa vuoi?» schioccò la lingua contro il palato, e picchiettò contro il vetro. «oltre a togliermi dalla tua testa, che credo sia poco fattibile.» quindi disegnò un cerchio in aria, come a raccogliere l’appartamento sulla punta dell’indice. «viste le circostanze.»
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    javier iglesias mendoza
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    prese un lungo respiro, riempendo e svuotando i polmoni e chiedendo, forse inutilmente, al cervello di calmarsi. avrebbe anche chiesto a moka di collaborareporcaputtana, ma quella aveva capito essere una battaglia persa già in partenza. poteva almeno dire di averci provato e di averlo fatto armato di buoni propositi. una possibilità, la sua: di scendere oltre il superficiale, e per una cazzo di volta offrirgli qualcosa che non rasentava il monosillabico.
    no? no.
    fissò la bottiglia per qualche secondo di troppo; poi la strinse nel palmo, concedendo a moka la fine di quel contatto prima che fosse obbligato a forzarla lui stesso. non era il momento giusto per cogliere i messaggi impliciti che gli stava inviando. e di quel passo non ci sarebbe mai stato, un momento giusto.
    «e tutto il resto.» annuì fra sé e sé, e portò nuovamente il vetro alle labbra. non per bere, stavolta, ma per premerlo contro la pelle, strofinare delicatamente.
    quando alzò lo sguardo su di lui gli offrì un altro sorriso. coperto in parte dalla bottiglia, ma la natura plasticosa non fu comunque in grado di celarla; nessuna traccia di divertimento nelle iridi scure. amaro, e forse un po’ anche ferito – non da moka, ma da se stesso. aveva sempre aspettative così alte, javier. gli schiaffi in faccia che arrivavano quando inevitabilmente non venivano raggiunte erano meritati.
    «ok.» parte due. sempre derogatory. come ci si sbaglia.
    riversò la testa indietro, premendo la lingua contro il collo della birra per cogliere un altro po’ di necessario alcol; poi lo trattenne nel palato per qualche secondo prima di buttarlo giù. glie ne servivano altre dieci di birre, cristo iddio.
    «credo tu non abbia colto la domanda.» la spinse di nuovo verso moka, a quel punto. necessario: a tenersela stretta al petto se la sarebbe finita da solo.
    «l’intenzione era un po’ difficile da perdere.» anche perché l’aveva fatto. lo aveva baciato prepotentemente, senza lasciargli una vera scelta; non che lui ci avesse davvero provato a sottrarsi. anche se avrebbe dovuto, perché era un fottuto adulto e sapeva fosse la mossa più logica.
    alas.
    «non voglio sapere cosa volessi fare, ma perché l’hai fatto. perché insisti.» incrociò le braccia al petto, e inclinò il mento. un sospiro stanco a scuotergli il petto prima ancora che potesse pensare di bloccarlo. «ma in effetti, forse ci siamo solo persi per strada.»
    citando santo fezco da euphoria: you’re confused? i’m fucking confused, bro. «a volte penso di sapere cosa vuoi, e poi–» agganciò i denti alla guancia, e cercò ancora le sue iridi chiare. eh. «leggo cose in più. che non dovrei leggere perché non esistono.»
    o almeno, per pace mentale, aveva scelto di trarre quella conclusione. che a cercare di capire i segnali a malapena accennati di moka un transcript non sarebbe stato sufficiente, e d’interpretare si era sinceramente rotto il cazzo; le sue questioni preferiva prenderle di petto, a denti scoperti. detto non detto tua madre.
    il passo in avanti, alla fine, lo fece anche lui. reggendo il suo sguardo e promettendo un sacco di cose. nessuna particolarmente buona o saggia. «va bene. se non lo fai tu, traduco io per entrambi.» lasciò che il tono di voce mutasse in qualcosa di più basso, appena sopra il sussurro. un segreto fra loro due. «devi toglierti questo sfizio. e posso capirlo.» via il dente, via il dolore. and all that. cercò brevemente il divano; un cenno del capo a indicarlo, e tornò su di lui. «possiamo farlo. o potrei anche» un altro passo in avanti, fino a rendere quasi del tutto nulla la distanza tra loro due. per obbligare moka a guardarlo dal basso, e per scorrere un palmo sulla sua spalla, tracciare un percorso fino alla nuca; lì dove affondò le dita tra le ciocche morbide, e tirò delicatamente. «evitarti il favore e metterti in ginocchio qui.» lui, un poeta, non lo era mai stato. i giri di parole non aiutavano mai nessuno; anche in quel caso preferiva essere diretto. sapeva cosa voleva, javi. e sapeva come ottenerlo – dove spingere, quando guidare, e anche quando lasciar fare. e se c’era una cosa che aveva capito del telly (l’unica, molto probabilmente), era proprio che avesse bisogno di ordini precisi. chi era lui per negarglielo. «è questo che vuoi?»
    non che gli servisse davvero, quella risposta. voleva solo sentire quel sì. chiaro e coinciso. posò l’altra mano contro il suo mento, allora; carezzando il labbro inferiore col pollice, e chiudendosi ancora di più attorno a lui. «il fatto, moka, è che non capisco cosa speri di ottenere. vuoi la scopata veloce, e poi l’amicizia disinteressata?» si strinse nelle spalle. «non so farlo.» di chiare dimostrazione ce n’erano parecchie. bastava solo chiedere. «non sapevo farlo prima, quando eri a distanza di un corridoio» lasciò la presa sui capelli, abbandonando nuovamente il braccio al fianco. «e non so farlo ora.» e abbassò anche l’altra mano; posandola alla base del suo collo, ed esercitando una pressione leggera. «non ne vale la pena, e non so più come dirtelo.»
    non aveva funzionato con le buone. non aveva funzionato con le cattive. e forse non avrebbe funzionato neanche in quelle circostanze: arreso, con qualche carta scoperta in più. l’importante era provarci.
    in teoria.
    «mandami a fanculo.»
    respiro.
    respiro.
    respiro.
    «ti passerà.»
    bestemmia.
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    javier iglesias mendoza
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    era diventata una scelta del cazzo in tempi record. non che non lo fosse stata dall’inizio — solo, con moka davanti ai suoi occhi e non più un’immagine frammentata nella sua testa, gli pareva un po’ più apparente.
    lo fissò di rimando senza rispondergli; concedendosi quel po’ d’esitazione sul ciglio della porta per prepararsi mentalmente ai dieci minuti (massimo, massimo venti) più lunghi della sua vita, prima di superarlo. l’ennesimo déjà vu. nessuna porta a sbattergli alle spalle, quella volta. nessuna mano a cercarlo e trattenerlo. un sollievo e un problema allo stesso tempo.
    lasciò vagare lo sguardo sull’appartamento, a quel punto; prendendo nota dei pochi segni di vita, e quelli che poco carinamente gli stava indicando il telly. e inarcò lento un sopracciglio quando, inevitabilmente, si soffermò sulla pistola. una certezza come poche, quella; strano, però, non vederla addosso a moka.
    priorità, si era detto. di fronte a quel richiamo magnetico finì lo stesso per scostare la giacca dalle spalle e lasciarla scivolare lungo i fianchi, prima di adagiarla con cura sulla prima superficie a disposizione — e allungare la mano, delicato come se stesse per accarezzare una bestia male addestrata.
    «non devi offrirmi niente.»
    lo mormorò distrattamente, le dita già prese a sfiorare il carrello della semiautomatica. non era una visita in amicizia, la sua. questo, quantomeno, lo sapeva.
    il resto – cosa volesse – beh.
    più complicato.
    passò la lingua sui denti, e prese la pistola in mano una volta per tutte. soppesando il ferro nei palmi, e sistemandola con movimenti fluidi nella giusta posizione prima di spingere contro la canna, cercando conferme a domande che ancora non si era posto. il solito stronzo audace; ovvio che teneva una pistola carica su di un cazzo di tavolino. alzò solo brevemente gli occhi su di lui, dandogli un’altra volta una fetta di ciò che gli veniva richiesto. stava imparando a concedersi in piccole dosi, javier, piuttosto che tutto insieme: una tattica vincente con un moka telly che prendeva e prendeva. attenzioni, spazio mentale e vitale.
    tirò fuori ciascun proiettile e lì reinserì uno ad uno, metodico e casuale. e poi, perché fanculo, avevano già violato un paio di volte di troppo le millanta regolazioni sull’utilizzo delle armi da fuoco, rilasciò la sicura e glie la puntò addosso. braccia alzate, spalle rilassate, schiena dritta: una posizione militare, aggraziata e letale, che era così familiare da permettere al sangue di circolare più facilmente. rimaneva incastrato tra quei due soli, il mendoza – uno violento, l’altro sentimentale. il genere di mix che non prometteva mai niente di buono.
    «non ne ho mai capito troppo il fascino.» suo malgrado la portò nuovamente a un livello che non mettesse a rischio la vita di entrambi. contro il pavimento, a pochi centimetri di distanza dagli stivali. ancora piena di proiettili, e ancora pronta all’utilizzo. non era abbastanza stupido da voler sfiorare il grilletto con l’indice, ma la tentazione c’era; e si leggeva nello scintillio degli occhi, ancora fissi sulla glock. «ho sempre preferito calibri più pesanti. win mag, rum.»
    la rigirò un’ultima volta tra le mani, prima di rinstillare la sicura – chiedersi per ben due secondi quanto fosse azzardata come mossa, decidere che non gli interessasse abbastanza ed eliminare la distanza fra loro. educato nell’offrirgliela riversa; la canna ora puntata verso il suo petto, l’impugnatura misericordiosamente libera.
    e di quei dieci minuti se n’era già giocati nove.
    «più facile partire da cosa non voglio, forse.»
    volere, tanto, voleva sempre troppo. da se stesso e dagli altri. a mancargli davvero era la capacità di chiederle, tutte quelle cose; men che meno pretenderle.
    «o da ciò che puoi darmi tu.» che in effetti era molto poco, vista l’esperienza. fece il suo passo indietro, riposizionando le mani nelle tasche; al sicuro dall’istinto che le voleva addosso a moka. come, non lo aveva ancora deciso.
    priorità.
    priorità.
    «abbiamo perso fin troppo tempo, e da qualche parte bisogna pur iniziare. solo perché siamo stati tagliati fuori da un posto—» batté le palpebre, e strinse le labbra in una linea retta. toccata piano. era più forte di lui: l’alternativa a rimettere la divisa da sergente, d’altronde, era di buttarsi a terra e piangersi addosso. che era un modo diverso per dire che non esistesse. «non significa che il nostro lavoro sia finito. e prima capiamo dove e come agire, meglio è.»
    ok.
    pragmatismi tolti: prese un lungo respiro, e non distolse lo sguardo da lui. qualcosa che non avrebbe potuto fare pur volendo.
    «e vorrei mettere in chiaro un paio di cose.» ma per quello, forse, l’alcol poteva essere loro amico. tanto che alla fine lo aprì lo stesso, il frigorifero; ignorando gentilmente il vuoto assoluto che occupava gli scompartimenti, e servendosi delle chiavi attaccate alla cintura per stappare la bottiglia. il genere di gesto ruvido che portava tutti i segni di una gioventù bruciata – tra fuoco ed esplosioni e scelte infelici. alcune visibili sulla pelle esposta del bicipite, lì dove la coda di un tatuaggio sbucava dalla manica della maglietta; altre sottocutanee.
    prese un primo sorso che valevano per due, e picchiettò il vetro contro la gamba. «facciamo così.» stavolta la lingua la passò sul labbro superiore. tastando il sapore della birra, e lo spettro di altro. osceno. «prima mi spieghi cosa cazzo significava quel momento in base.» eh. forse non era così importante: puttanate. «magari ci riflettiamo su.» fece un cenno col volto, e gli offrì la bottiglia.
    «e niente tequila.» ma come viveva.
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    doveva davvero smetterla di convincersi che l’universo gli avesse dato abbastanza cazzotti in faccia. tanto poi la sua teoria veniva smentita prima ancora che potesse terminare quel pensiero. ogni fottuta volta. uguale, un serpente che si mordeva la coda.
    sì, javier non era tipo da accettare le cose a muso basso, ma era altrettanto vero che in quell’evento specifico avrebbe preferito essere avviluppato da quell’abisso in definitiva. non che riaprire gli occhi lo avesse poi sorpreso più di tanto; morire di quella morte breve e indolore sarebbe stata una concessione eccessivamente gentile, visti i precedenti. suoi, in qualità di sfigato cronico. punching bag ufficiale come tagline di rito.
    non era riuscito a tornare a casa. armato delle migliori intenzioni, ma bloccato dalla forza fisica e mentale che gli permettesse di fare quel passo in avanti. era ormai stato privato degli strumenti necessari per guardare in faccia tutte quelle persone senza piegarsi al loro cospetto — non riuscire più ad alzarsi. con la vaga coscienza di non essere più pienamente se stesso? eh, difficile. cristo iddio.
    impossibile.
    e dire che ci aveva costruito un’intera carriera, sull’autocontrollo. tassello dopo tassello, sopprimendo in scelte calcolate tutta la furia che era tornata a distanza di anni a pesargli sullo stomaco. malcelata, orribile, incontenibile. ne aveva pagato le conseguenze. quelle facce svuotate governavano il suo inconscio; manifestandosi in incubi, nelle poche ore di sonno che riusciva a concedersi, e in squarci — quando la sua mente esausta gli giocava brutti scherzi, offrendogli immagini lucide che lo obbligavano a premere le dita contro il torace e insegnarsi un’altra volta a respirare.
    un bel casino. da aggiungere a una lista già singolare di bei casini che non sembrava intenzionata a diminuire, solo a crescere drammaticamente. si era fatto trascinare avanti da quelle nozioni imparate a nausea – freddo nel frazionare in priorità, realista nel voler partire dal basso. che troppo basso, poi, non si era manco rivelato.
    prendere il telefono in mano gli era costato un’ora della sua giornata. gli era bastato premere sul tasto dell’accensione, il respiro trattenuto, e guardare tutte le chiamate perse per cambiare idea e abbandonarlo sul lenzuolo ancora intoccato. non sapeva proprio dove sbattere la sua testa del cazzo; non quando ovunque guardasse c’erano spigoli, uno più affilato dell’altro. altre due ore per inviare un rapido messaggio a mira e julie, breve e conciso per necessità personale. solo sono vivo, tornerò – perché al resto non voleva e non poteva pensarci. si era persino dato una mentale pacca sulla spalla per aver agito prontamente e previsto l’inevitabile con un check in al primo hotel disponibile. entrare in quell’appartamento normalmente vuoto e ritrovarsi un comitato di benvenuto non avrebbe fatto che peggiorare le cose, d’altronde; ci era già passato una volta, e non era intenzionato a ripetere l’errore.
    come poi fosse giunto a scrivere a moka era un po’ un mistero.
    insensato, indubbiamente. aveva fatto scorrere il pollice tra i nomi, il pallino blu accanto a ciascun messaggio non letto a deriderlo; e ci era quasi scivolato, su quella conversazione vuota. premendo un po’ troppo il dito contro il touch screen, forse. o cercando volutamente il silenzio dell’unica persona che non si era chiesta dove fosse finito – le solite brutte abitudini a tornare a galla nei momenti meno opportuni. ed era rimasto a fissare l’anteprima della chat per qualche secondo di troppo, leggendo e rileggendo il singolo messaggio che lui stesso aveva lasciato in tempi meno sospetti. preferisco le chiamate, tranne quando le ignorava come un deficiente. ma vaffanculo, javier.
    al masochismo, tanto, non c’era mai fine. rapido nel digitare la semplice richiesta di vedersi, perché a ragionarci sopra non avrebbe più concluso niente. ritirarsi, ormai, era diventato il suo modus operandi preferito.
    il dubbio di aver fatto il passo più lungo della gamba gli era venuto solo dopo, col casco in mano e la moto a ringhiare nel parcheggio. aveva continuato a pensarci per tutto il tragitto; superando l’ingresso, e continuando anche quando ormai era faccia a faccia col legno che lo separava dal suo appartamento. ma che cazzo ci faceva lì. ma cosa cazzo stava facendo.
    non si diede il tempo per considerare la fuga tattica che spingeva contro la sua gola: premendo le nocche contro la porta e spingendo la spalla sul telaio, lo sguardo basso mentre si ripeteva, a mantra, di renderla una visita rapida. il giusto necessario per chiedergli se stesse bene, frasi di circostanza con educato distacco prima di passare alle questioni pressanti – la resistenza, la guerra, il nuovo mondo. problemi di gran lunga più importanti di quelli che comunque gli balzarono alla mente non appena alzò gli occhi su di lui.
    «hey.»
    spinse la lingua contro il palato, e cercò parole che si rifiutarono di venirgli incontro.
    eh.
    [bestemmia].
    [bestemmia].
    [bestemmia].
    [bestemmia].
    «scusa» stese le labbra in un sorriso appena accennato, e piegò il capo. «mi sembrava più semplice così.»
    di persona, s’intende. heavy on sembrava, perché poi, concretamente, non lo era affatto. nascose la mano inoccupata dal laccio del casco nella tasca dei pantaloni – spingendo via l’istinto che gli faceva solleticare i polpastrelli, e dandosi forzatamente una regolata.
    non era proprio il caso.
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    Edited by western nights - 2/6/2023, 22:10
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    vabbè. la palla ha detto ovvio. alle brutte si tolgono in modo tattico CIAO

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    javier iglesias mendoza
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    che si fosse perso qualcosa, in quegli anni, lo aveva dato per scontato. non aveva capito quanto, esattamente, finché non lo aveva letto negli occhi chiari di vincent.
    avrebbe potuto interpretarla come una semplice rottura. al tempo, d’altronde, lui non ci aveva creduto nella lungimiranza di quel rapporto. a differenza di vincent lui era già stato scottato, e male. era un vent’enne con un divorzio alle spalle, ancora follemente innamorato di una ragazza che non sarebbe mai più stata sua: gli piaceva fingere di averla superata perché era stata una naturale conseguenza, di comune accordo. e invece manco per il cazzo. dio, se si diceva una marea di stronzate. poteva pretendere quanto voleva di essere giudice imparziale – che la scadenza che leggeva sulle fronti di eileen e vincent fosse dettata da ciò che sapeva su ciascuno di loro, e non dall’invidia a logorargli lo stomaco. la verità era un’altra.
    poi si era messo l’anima in pace.
    poi era successo quel che doveva succedere. e ci aveva creduto un po’ meno, ma per motivi diversi. motivi alla quale, in quel momento, non poté fare a meno di pensare.
    il linguaggio del corpo del kinsley suggeriva altro.
    era successo qualcosa d’impossibilmente peggiore.
    lo sapeva, questo. lo poteva vedere.
    «vincent.»
    inspirò dalle narici – controllato e cauto, la voce ridotta a un sussurro – e glie lo chiese lo stesso. «glie l’hai detto?»
    e pregò silenziosamente che non servisse altro, perché non voleva spiegarsi, javier. non in quel caso.
    tutto sommato la migliore delle ipotesi. avrebbe persino aggiunto un finalmente, se così fosse stato. non te lo meriti – mai, te lo meriti. anche in quel caso non aveva potuto fare a meno di addossarsi le colpe di entrambi, scegliendo di vedere il peggio in se stesso e il meglio in vincent. anche se era stato vincent a fare il primo passo. avrebbe potuto respingerlo, invece che assecondare quel momento di debolezza. quantomeno dimostrava una certa coerenza in javi: le cazzate non erano una novità, dalle sue parti. in vincent, moka telly avrebbe trovato un degno compagno di sventure.
    «non so se sperare il contrario.»
    gli rivolse un sorriso debole, quasi (perché non c’era proprio un cazzo da ridere, inutile dire; di mirto, nei suoi occhi, non ce n’era traccia) ironico. lui ed eileen non si sentivano da quasi un decennio, d’altronde, ma il suo rispetto voleva comunque conservarlo gelosamente. non era certo di poterci contare più.
    «a dirla tutta» schioccò la lingua contro il palato, e portò la sigaretta alle labbra. un lungo, deliberato tiro a mettere una pausa a quella conversazione. «sono sorpreso che nonostante tutto tu mi stia rivolgendo la parola. devi rinfacciarmi qualcosa?»
    batté le ciglia, e fissò nuovamente le pozze scure su di lui. «è vero, avrei potuto cercarti.» non chiese se al posto suo l’avrebbe fatto, perché la sua risposta l’aveva già avuta. e non gli era piaciuta per niente. non aveva apprezzato particolarmente neanche il picco di speranza che aveva accelerato i battiti cardiaci: non prometteva mai nulla di buono.
    masticò aria, e spostò lo sguardo altrove. la sincerità non era un problema; quell’ammissione, però, un po’ gli pesava. «non ne ho avuto il coraggio.»
    picchiettò con l’indice contro la cartina, e si concentrò sul movimento della cenere nell’aria. «e forse è stato meglio così. non avrei agito lucidamente, e l’ultima volta che me lo sono concesso–» eh, non era andata proprio benissimo. si era svegliato sul materasso sbagliato, e aveva fatto il passo falso che li aveva portati a quel punto.
    decisamente non il suo miglior momento.
    scosse la testa, la fronte aggrottata. «mi dispiace. credo sia troppo tardi per sistemare il passato. per entrambi. ma se quello che dici è vero» e solo allora si approfittò della vicinanza riacquisita; per stringere un palmo contro la sua spalla, cementarsi e cementarlo. «se davvero sei dalla mia parte, lo devi fare sapendo che sono una persona diversa. che ho fatto cose di cui non vado particolarmente… fiero.»
    non gli avevano neanche dato il tempo di cicatrizzare. sentiva ancora il peso dei cadaveri che aveva trascinato al piano superiore a indolenzirgli le braccia – l’olezzo di carne bruciata.
    «e che sei ancora in tempo per cambiare idea.»
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    «non puoi darmi la colpa per le tue scelte, javi.»
    e allora , che lasciò la presa sul suo polso. strattonandolo via, lo sguardo impossibilmente scuro; bruciato da una fiamma che aveva poco a che vedere con quella a danzare sul polpastrello di vincent. non aveva smetto di fare un male fottuto, inutile dire. una ferita che non si era mai rimarginata a dovere; colpa sua, che continuava a riaprirla.
    vederlo non stava aiutando. la chiusura che aveva bramato per tutti quegli anni non gli era mai parsa così lontana. non con l’anima divisa in due spicchi: quello che voleva stringergli il volto nei palmi e baciargli la fronte, e quello che ancora sanguinava sull’asfalto.
    forzò aria nei polmoni un’altra volta, perché l’alternativa non sapeva manco quale fosse. scagliarsi addosso a lui? non era più un ragazzino dal pugno facile, javier. anche volendo – se ne avesse trovato il coraggio –, cosa avrebbe risolto? solo pelle spaccata a riflettere la rottura del suo cuore; bella merda.
    «vorrei fosse così semplice.»
    si strinse nelle spalle, e prese una boccata di fumo. per fare qualcosa, e per darsi il tempo per riflettere; calmare il respiro finché era ancora in tempo. era meglio di così, javi. più un mantra da ripetere ossessivamente che un dato di fatto, ormai, ma cercò di non pensarci troppo.
    «non lo capisci? cristo, vince.»
    passò il palmo lungo il viso, spingendo i polpastrelli contro le tempie. «non sei – non eri solo un collega per me. lo sai. dovresti saperlo.»
    ma a che punto erano arrivati? come, ci erano arrivati. si sentiva privato di un arto. incapace di fare altro se non trascinarsi avanti e biascicare parole sconnesse. non lo riconosceva più. una sensazione di gran lunga peggiore di quanto anticipato: davanti a lui c’era solo lo spettro di quello che erano stati, uno sconosciuto che aveva ritagliato la faccia del suo amico e che ora lo stava sbeffeggiando.
    «eri mio fratello. ti avrei seguito ovunque. l’ho fatto. e tu» e lui non aveva fatto nulla. masticò l’aria per qualche secondo, ingoiando il resto della frase. perché d’altronde aveva ragione, vincent kinsley. ci era andato di sua spontanea iniziativa in quel laboratorio, alimentato unicamente dalla sua stessa disperazione. se l’era segnato da solo, il suo destino. lui aveva solamente piantato un seme nella sua testa e lo aveva innaffiato finché non era divenuta pura ossessione. non poteva incolparlo di nulla. ed era quella, forse, la cosa peggiore: non esisteva riscatto per quelli come lui. era schiavo delle sue emozioni – un sentimentalista del cazzo. non ci aveva davvero pensato, javier, alle conseguenze negative delle sue azioni, perché le stava causando vincent. e vincent lo amava inequivocabilmente, senza secondi fini; nel modo assurdo, inspiegabile, con cui si ama un’estensione del proprio essere. sangue del suo sangue. non c’era male che potesse fare. finché male non l’aveva fatto. «lo sei ancora.»
    umettò le labbra, e sbuffò una risata amara. «vorrei che non lo fossi.»
    sarebbe stato più semplice, d’altronde, segnarlo come nemico e mettersi tutto alle spalle. e invece insisteva nel voler recuperare l’irrecuperabile. nel crederci ancora, e dargli ragione: anni e anni di astio ridotti in frantumi da quella singola affermazione, perché era più facile riconoscersi come il problema, piuttosto che ammettere le colpe degli altri.
    «e so di star chiedendo troppo, a questo punto.» come suo solito: certe cose erano destinate a rimanere invariate. «ma vorrei anche avere la certezza di stare dalla tua stessa parte.»
    spinse la spalla destra contro il muro e inalò nuovamente, lasciando che la nicotina gli bruciasse la lingua prima di rilasciarla con un sospiro. «non alzerò il fucile per una causa che giova la minoranza. non più. ho smesso di giocare al sicario del governo.»
    specie quando quella minoranza non includeva la cerchia stretta di persone che si era promesso di proteggere fino all’ultimo respiro. il suo altruismo aveva un limite molto preciso. era stato figlio prima ancora di essere persona. non ne andava fiero delle cose che era disposto a fare per la sua famiglia; del prezzo che era disposto a pagare per la loro protezione.
    non lo faceva per la ribellione. non lo faceva per il bene di miliardi di innocenti. lo faceva per interesse personale. egoista: l’ennesimo difetto da aggiungere alla pila delle innumerevoli problematiche che componevano javier.
    e a proposito di ferite aperte. «mi chiedo cosa ne penserebbe leen.»
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    nickname: homini lupus
    role attive:
    aidan [08.04]
    PE accumulati sulla carta fidelity: 15
    scheda livelli:
    aidan - ritter - dick - tooth

    nickname: homini lupus
    role attive:
    chouko [24.04]
    PE accumulati sulla carta fidelity: 10
    scheda livelli:
    chouko

    aggiornato

    Edited by ‚soft boy - 28/4/2023, 00:31
  13. .
    javier iglesias mendoza
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    lo studiò con fare analitico. centimetro per centimetro; catalogando, metodico, il vecchio (i capelli, la tensione nelle spalle e nella mandibola, la giacca) e il nuovo (il colore degli occhi – privati della luce che li animava un tempo; non necessariamente affievolita, ma sostituita da altro –, la barba incolta, la stessa incertezza di javi nell’approcciarlo – quello, più del resto, spiccava come perturbante).
    e fece il suo passo in avanti. poi un altro, guardingo come un animale selvatico.
    avrebbe dovuto eliminare la distanza tra di loro e sferrargli il pugno che si meritava. sulla gola, dove posò il suo sguardo: per fare male e per destabilizzare. il genere di mossa meschina che andava contro il suo stesso essere – l’unica che vincent non si sarebbe potuto aspettare. erano figli dello stesso rigido addestramento, d’altronde. si erano già scontrati, e più volte di quanto fosse in grado di contare; abbastanza da imparare a leggere l’un l’altro come libri aperti e divenire un unicum – mente e corpo a incastrarsi in un puzzle perfetto.
    lo aveva odiato, javier. non per mancanza di sfoghi su cui concentrare la sua rabbia; c’erano i dottori, per quello. chiunque incontrasse il suo sguardo al di là della gabbia in cui era stato infilato. c’era se stesso. no: lo aveva odiato perché non ne aveva potuto fare a meno. perché dopo quello che avevano passato – quello che erano stati: fratelli d’arma, nel senso più letterale del termine –, vincent aveva preso la sua fiducia e l’aveva buttata in un fottuto cestino.
    si era sentito… abbandonato. tradito, e nel peggiore dei momenti – debole e spaventato e bisognoso di una mano da stringere. se era riuscito a scappare era stato solo perché mosso dall’impellente voglia di conficcargli una pallottola nello stomaco: farlo soffrire, come vincent aveva fatto soffrire lui.
    poi era tornato nel suo appartamento vuoto.
    aveva spaccato tutte le foto incorniciate, bruciato i ricordi. ogni prova concreta del loro passato in comune distrutto in una fitta di rabbia che gli aveva tolto il fiato. e aveva stretto le mani nelle ciocche scure, piegato la testa, e si era sentito improvvisamente esausto. aveva finto di non far caso alle lacrime a bagnargli il volto, perché non poteva concedersi lo spazio per il pentimento.
    il poco che era sopravvissuto lo aveva racchiuso in una cartella nascosta sotto plichi pesanti di documenti vecchi – per dimenticare che ci fosse ancora, e non dover pensare al motivo per cui non lo stesse semplicemente buttando.
    nonostante tutto, per javier era cambiato ben poco.
    allora come in quel momento. non avvertì rancore, nel sentire il suono della voce. avrebbe dovuto, e invece fu pervaso da un ingiusto senso di malinconia.
    dopo tutto quel tempo era ancora connesso ai pugni di vincent. abitudini dure a morire. una sua enorme pecca: perdonava anche quando non doveva.
    attese qualche secondo, e riportò la sigaretta tra le labbra; quindi piegò lentamente il busto in avanti, e chiuse il palmo attorno al suo polso per poter inspirare il primo, misericordioso tiro di nicotina.
    non arretrò. strinse la presa, piuttosto; nulla che il kinsley non potesse scogliere con facilità, ma il suo non era altro che un messaggio. resta.
    «così pare.»
    il tono controllato, basso. aveva il suo bel cocktail di emozioni contrastanti da mascherare.
    «è ironico. non trovi? ti rivedo dopo anni, e siamo di nuovo su di un campo di battaglia.»
    curvò le labbra in un sorriso debole, acido ai lati. rapido a morire.
    «solo che ora non so più se posso fidarmi di te.»
    ah, e invece. qualcosa alla fine era cambiato davvero.
    gif code
    1986
    scot
    rebel
  14. .
    beh. che dire. prendo tutto. ciaone

    CITAZIONE
    non so come o perché, ma nel pensieve ho scritto che è amico di Niamh e di Sersha

    di sersha me lo ricordo (perché? chi lo sa ma SO che erano amiketti). niamh assolutamente rimossa com'è successo sto malissimo VA BENE le prendo entrambe
    CITAZIONE
    E dobbiamo trovare un modo per placcarti anche con Shiloh, deve conoscere papà in previsione di traumi futuri.

    ma infatti com'è che ti sei sottratta per tutto questo tempo. figlia ingrata.
    CITAZIONE
    ti butto Ryu perché tanto lavorano più o meno nello stesso ambiente, mi dispiace per i traumi con la yakuza ma al massimo Ken può adottare l'approccio I Pretend I Do Not See. Xav fa il narcotrafficante (allegedly) quindi anche qui gli ambienti sono quelli, anche lui vuole della meritata pace pentale quindi te lo butto come amico? di bevute? something.

    SLAYYYY fagli venire un po' di war flashbacks. xav per qualche motivo mi fa ridere, da ubriaco secondo me comincia a parlare in satoori a raffica. lo immagino che annuisce solenne e finge di capire

    CITAZIONE
    non so come ma lei e Ryu si conoscono, troviamo un modo. Poi come anima affine ti butto Kieran, sia come cliente che come buongustaia di ff sui comacolla SLAY. Shiloh la può conoscere perché sta nel circolo letterario e di ff?? MA CNEH GAY DAI.

    prima o poi vi colleziono tutti, pirletti del suo cuore < 3
    KIERAN ANIMA AFFINE TI ATTENDEVOOOOOOOOOO
    shiloh e gay spero abbiano gli headcanon pesanti da girare.

    CITAZIONE
    proprio figlia mia, niente da dire. Andrebbe molto d'accordo con Darden lo shento. Ma anche con una tipa come Sersha o Cherry.

    qualcuno dovrà pur mantenere alto il nome della famiglia qui. con cherry ci avrà indubbiamente provato è così che va la vita

    e a proposito di provarci (.)
    CITAZIONE
    vabbè zio preferito (unico) di Kieran, sicuro le ha insegnato tutte le mosse killer!!! Poi duh, lui e Darden si conoscono e posso dire che Darden lo rispetta ma osserva da lontano perché non le va particolarmente a genio. Con Amos non mi scappi mi dispiace. Sono amici ciao, e ogni tanto Amos rischia la giocata.

    1. NIÑAAAAAAAAAA è ovviamente ricambiato
    2. anche qui sentimento reciproco. nothing to say
    3. guarda che se mi ritrovo marcus con un coltello alla gola ti faccio volare dalla finestra
    4. ciao sin, parlami dei piccioni, argomento interessantissimo! twirling my hair giggling

    CITAZIONE
    sto ancora ridendo se penso a lui e Sersha. Sersha non lo dice troppo in giro ma secondo me sono (quasi) amici. Di unhinged ho Kieran, messi insieme potrebbero essere una forza troppo potente per il mondo. E sappi che Sinéad vuole entrare in questo giro di scommesse, trpp bll davvero un sogno.

    ok ma non puoi rimangiartelo

    CITAZIONE
    ha una rivalità/amicizia con Paris, non faccio io le regole. Sappilo.

    guarda. ti insegna pure lo sport superiore per essere finalmente alla pari. jock on jock violence
  15. .
    sarò diretta come un treno in modalità quest perché 1. i miei pg li conosci tutti 2. ho legami con un po' chiunque 3. si muore da eroi senza schema
    ma lo sai che se vuoi servirti di qualcuno per cose io ci sono sempre SMACK

    DIAZ: eh, javi. perché è l'unico ribelle che porto e perché sicuro si Capirebbero, annoiandosi a morte a vicenda (LATINAS..... < 3). però non saprei manco dirti come, sorprendimi. oppure no, si beccano lì, o non si beccano e basta
    SEHUN: ...hm. sawyer è segugio, magari lo conosce. però è un asociale di merda (e ha... 26 anni quindi chissà, sembri troppo serio per girare coi ragazzini). blank stare
    HAMISH: sarebbe divertente lanciarti javi solo perché così sono gli ptolemy al quadrato. zero idee . bellino però sono felice che lo butti qui anche se come fittizio AAAAAAAAAA

    arci e jade i pretend i do not see. moving on.
    JD: quando ancora pensavo di fare javi solo fittizio ti dissi che sarebbe stato dalla sua parte. still true! secondo me starebbe un sacco simpa a chouko

    e niente gli altri già li conosco sono inutile. dovremmo evitarci per un po' così posso proporti cose al wanna perché ora come ora sono inutile
96 replies since 12/2/2023
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