Posts written by peetzah!

  1. .
    1993
    coach
    gryff
    where do we go from here?
    tell me,
    do we get what we deserve?
    you let your feet run wild,
    time has come as we all, oh, go down
    Per essere uno che aveva passato tutta la vita sotto i riflettori, Piz aveva un rapporto strano con le proprie emozioni, e più nello specifico il modo in cui era solito trasmetterle: per lui, di base, era concepibile mostrare solo un lato di sé — quello del campione, dell’uomo forte e sicuro di sé, vincente, capace di avere successo in qualsiasi cosa. Non esisteva per nulla al mondo che i mass media o dei perfetti sconosciuti lo beccassero di cattivo umore, o triste. Non esisteva proprio. Quel genere di emozioni era fatto per essere (non) processato in privato, lontano dallo sguardo attento di chi era pronto a farlo a pezzi anche per la minima incertezza, coloro che non vedevano l’ora di insinuarsi in una minuscola crepa e allargare il danno fino a distruggere, per gelosia o per divertimento, un’immagine tirata su con fatica e con i successi raggiunti uno dopo l’altro.
    Erano emozioni che si permetteva di provare solo con poche persone, così poche che poteva letteralmente contarle sulle dita di una sola mano: i suoi genitori, Idem, Penn.
    Per tutti gli altri non esisteva un Morley Peetzah diverso da quello che aveva sempre fatto vedere, orgoglioso di sé e sicuro, padrone delle proprie emozioni e della propria vita.
    Un Piz che sembrava lontano anni luce da quello seduto sulla panchina del San Mungo, nonostante si stesse impegnando molto per mostrare alla dottoressa quell’unica faccia della medaglia che, come fosse una luna messa sulla terra per conquistare medaglie e trofei uno dietro l’altro, mostrava al mondo.
    Era una situazione troppo più grande di lui, quella lì, e non riusciva a distaccarsene completamente; non poteva togliersi dalla mente l’immagine di una Bells che, dopo tutti quegli anni e tutti quei sacrifici, tornava costretta in quei limiti che il corpo umano, troppo debole e fallato, spesso imponeva; non poteva non pensare a quanto sangue avesse bagnato il suolo di tutto il mondo, nei due mesi precedenti; non poteva non immedesimarsi in quei genitori che avevano perso un figlio, o in quei figli che avevano perso i genitori. Non poteva pensare a cosa avrebbe fatto se, per un malaugurato allineamento dei pianeti, quel conflitto gli avesse strappato via Joni.
    Era tutto semplicemente troppo.
    «si può condividere anche un silenzio alla fine»
    Non era mai stato bravo a condividere i silenzi, lui. Sempre troppo rumoroso, troppo gonfio, troppo certo; stare in silenzio era qualcosa di sconosciuto per Morley, eppure ora era l’unica cosa che desiderasse davvero. Silenzio, per rimuginare su quanto avvenuto.
    E forse era esattamente quello di cui non aveva bisogno.
    Non avrebbe risolto nulla piangendosi addosso, e non era affatto il tipo da ricorrere a quel genere di finte soluzioni, Piz; in qualche modo, pure se sembrava impossibile, doveva esserci un modo per affrontare di petto tutta la situazione.
    Doveva.
    Sospirò, e non si mosse dalla panchina.
    Se c’era, quel modo, non aveva il giusto spirito per cercarlo in quel momento.
    Ricambiò il sorriso, poco convinto; già, il cortile del San Mungo. Dove centinaia di persone passavano ogni giorno, chi piangendo perché aveva perso ogni cosa, chi invece perché grato di avere ancora qualcosa per cui svegliarsi la mattina. Lui, a conti fatti, non aveva perso nulla: aveva ancora una casa, un figlio, una famiglia.
    (Non aveva più Penn — ma lei l’aveva già persa da tempo.)
    Perché, dunque, se ne stava lì tutto moggio a piangersi addosso?
    Doveva decisamente riprendersi e darsi una smossa: i frignoni non piacevano a nessuno, lo sapeva benissimo.
    «cinque minuti mi sembrano un po’ pochi, che ne dice di dieci?»
    Solo a quel punto, dopo essersi ripetuto più e più volte nella mente che quell'atteggiamento non era affatto quello del campione, prese un bel respiro e infuse più colore in quel sorriso tirato. «temo che finirebbero per diventare venti, o molti di più.» shcerzò, senza scherzare. Prima si fosse alzato da quella panchina, prima avrebbe potuto dare un senso a tutte le cose lasciate in sospeso quella mattina.
    Solo che lo sguardo gli cadde, confuso, sul taccuino poggiato tra loro dalla strega, alla quale rivolse la stessa espressione incerta. «è usato e non è un granché ma… potrebbe scrivere ciò che le passa per la testa qui» oh… oh. Mh. Idem, una volta o due, aveva provato a suggerire una “terapia” simile, ma non era mai servita.
    «come… una specie di diario segreto?» il commento gli uscì più sarcastico del dovuto, se ne rese conto troppo tardi: non c’era effettivamente nulla di male a proporlo come modo per esorcizzare un po’ i brutti pensieri, peccato che lui non fosse il tipo per quel genere di cose.
    «potrebbe dirmi di farmi i fatti miei, e avrebbe ragione, ma le sto parlando da persona, e non da medico» Non glielo avrebbe detto, non era un cafone, ma annuì comunque, valutando quanto detto, e quanto proposto. «a volte serve a riordinare i pensieri, poi rileggerli una volta risolti li faranno sembrare bazzecole, o solo amari ricordi» «ma dubito aiuteranno con i problemi reali…» alzò lo sguardo terso verso il cielo, tirando le labbra in una linea sottile: c’erano cose che non si risolvevano semplicemente scrivendole su un libro.
    Quando tornò a guardare verso la donna, l’espressione era più morbida.
    «mi dispiace, non volevo essere insensibile. è che sono abituato ad approcci più diretti, di solito. “un problema che non può essere preso a pugni, non è un problema che mi riguarda…”» recitò quell’ultima frase quasi in maniera atona, parole che aveva ripetuto a se stesso per tutta la vita e che, di punto in bianco, non si applicavano più alla sua quotidianità. «piacere, comunque,» disse infine, allungando la mano in direzione della dottoressa, «morley peetzah.» quel “immagino mi conosca” che di solito accompagnava le sue presentazioni, rimasto taciuto per qualche strano motivo. «grazie per avermi concesso di rimanere sulla sua panchina, dottoressa.»
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    «non mi serve un anello. Ho già tutto quello che voglio»
    Impossibile fermare il sorriso che si allargò da parte a parte sul viso del coach, già esterrefatto da quanto stava succedendo con così poco preavviso (nessuno) in quel momento, e sbalordito dalla naturalezza con cui i carbs stavano affrontando quel discorso — forse per la prima volta da quando avevano deciso di intraprendere una relazione seria. In realtà, non ne avevano mai parlato, da sempre convinti, entrambi, che non fossero il genere di coppia da potersi permettere un matrimonio, che funzionassero meglio senza, ma se quell’esperienza aveva insegnato qualcosa a Piz, oltre che a comportarsi da persona matura per prendersi cura di un bambino, era che forse, dopotutto, una famiglia convenzionale voleva metterla davvero su, con Penn. Lo voleva davvero. E sposarla non era un’idea così terribile, no?
    «non ha importanza dove. Importiamo solo noi»
    Il fatto che anche lei, ora, ne fosse convinta gli faceva ben sperare: forse c’era davvero una possibilità, per loro.
    (Aiuto I made myself sad.)
    «sposami, morley. ora. Adesso. Andiamo a las vegas. Il resto può aspettare»
    Si beò della risata cristallina della Hilton, incastrando lo sguardo azzurro in quello verde di lei quando Penn gli prese il viso tra le mani e lo invitò a osservarla con serietà e attenzione, non senza una certa difficoltà: avrebbe preferito continuare a riempirla di baci, cercare con le dita esperte la zip del vestito e abbassarla per poter baciare poi la pelle delicata che scendeva al petto, e abbassare con i denti la spallina del reggiseno, ma quello (e molto altro) avrebbero dovuto aspettare.
    «ma voglio essere tua ora.»
    Parole fraintendibili (specialmente da pandi che aveva capito tutt’altro) che lasciarono per un attimo il Peetzah confuso, e su di giri, già pronto a riprendere quello che avevano interrotto, fino a che la lampadina si accese e capì.
    «oh. OH. intendi… vuoi sposarti ora gli sembrava un tantino affrettata, come cosa, ma non poteva negare che avesse un fascino tutto suo: l'ebbrezza di qualcosa fatta di getto, spontanea, avventata; qualcosa così in linea con Piz ma che su di Penn calzava buffamente , eppure in qualche modo la Hilton sapeva porta anche quello con gran classe. «vuoi sposarti… ora.» lo ripetè, giusto per essere sicuro di aver capito, indicando lo spazio esiguo tra loro, e rimarcando il concetto. Las Vegas? Immaginava si potesse fare, d'altronde lui non aveva mai avuto grandi pretese sulla cerimonia, il dove o il cibo. «las vegas? sei sicura?» per quanto lo riguardava, l’avrebbe sposata anche davanti al parroco di un paesino sperduto, senza nessun parente o amico nei dintorni, ma aveva sempre immaginato che Penn ci tenesse a quel genere di cose, che avesse desiderato la festa in grande stile come tutte le altre ragazze, sin da piccola. Accarezzo il suo viso con una mano, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «se è davvero quello che vuoi, facciamolo.» si avvicinò per lasciarle un bacio sul collo, salendo poi lentamente verso le labbra. «andiamo dove vuoi, sposiamoci di fronte a chi preferisci,» anche se l’idea di sposarsi davanti ad Elvis lo metteva un po’ in soggezione, «sposami, e ti prometto che ti renderò la donna più felice del mondo, penn hilton.»
    oh boi.
    oh boi.
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    fool me twice: that's just fucked up
    you know I'm dumb as hell, c'mon


    *mega sospiro*
  3. .
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    Piz accetto il silenzioso invito di Euge a sedersi accanto a lui, attento a lasciare un posto libero per la dolce metà del professore, contento di aver trovato una sedia dove posizionarsi e che non avrebbe abbandonato più fino alla fine della cerimonia.
    «smooth, anche se non mi piace il messaggio implicito»
    Si accigliò, il Peetzah, confuso. C’era un messaggio implicito nelle sue parole? L’aveva fatto di proposito?
    (No.)
    «stai dicendo che prima non ero una bomba sexy irresistibile?» Ah. Ah, ecco.
    Lasciò che una risata divertita sfuggisse dalle labbra carnose, accomodandosi meglio con la schiena abbandonata contro la sedia rivestita di bianco e lilla. «sei sempre una bomba sexy irresistibile, jackson.» lo osservò per un attimo, portando poi le iridi azzurre sul resto della sala. «deve essere per forza questo il motivo che ha spinto jaden a sceglierti, non può essere stata di certo la tua personalità.» bacino in aria per euge, ti si vuole bene.
    Gli chiese come procedeva la gravidanza, aspettandosi decisamente il tipo di risposte che ricevette.
    «ho smesso di vomitare a spruzzo come un idrante»
    «che bella immagine» commentò, asciutto, cercando di non immaginarsi eugene jackson riverso sul water che “vomitava a spruzzo come un idrante”, e fallendo miseramente. «lo sai che ha già le unghie?» — cosa? Cosa? «di già?» ma.. a che mese era? Come funzionavano le gravidanze? Piz non era così esperto: quando sua mamma era rimasta incinta di Joni, lui aveva avuto tredici anni ed era rimasto quasi tutto il tempo ad Hogwarts, vivendo ben poco di quegli irripetibili momenti; Penn, poi, aveva deciso di affrontare la sua senza dirgli nulla e nascondendosi in Thailandia, perciò anche lì Morley era rimasto fuori dal giro. «e… fa male? ti graffia?» no, davvero, come funzionava?
    «Spero tu non stia flirtando, Peetzah»
    Trasalì alla voce (poco familiare, con quel timbro più basso e marcato) di Jade, ma fu veloce a sorridere anche alla special. «forse…» «la gravidanza ti dona, e anche quel vestito? Puoi fare di meglio, riprova» Ah. Okay. Se lo diceva lei. O lui, insomma. «va be–»
    E Jade si era allontanata per parlare col piccolo Uran. Oddio, troppi discorsi di famiglie, bambini e/o bambini in giro, quel giorno: Piz non era pronto ad affrontare tutto quello.
    «sai cosa, dovremmo trovare una ragazza a Piz» Si trattenne dal tirare un coppino al Jackson, solo perché picchiare una donna l’avrebbe fatto cancellare immediatamente da ogni tipo di social e contesto sociale, ma assottigliò comunque lo sguardo sul mago, rivolgendolo poi alla sua compagna. Al suo compagno? Aiuto. «o un ragazzo. una creatura. magari un candelabro. ho sentito di gente a cui piace pulire soprammobili leccandoli»
    «niente candelabri,» si affrettò a correggerlo, prima che potesse formulare e partorire strane idee, «o creature.» ma per chi l’aveva preso? «oh guarda, sta per iniziare la cerimonia.»
    «ugh, ci risiamo. piz, sii cavaliere e trovami un fazzoletto, sento arrivare una crisi mistica»
    E il Peetzah offrì al prof il suo fazzoletto con tanto di iniziali ricamate, e poi si concentrò sull’ingresso in scena degli sposi.

    Alla fine della cerimonia, Piz era miracolosamente vivo, accanto ad un Euge che di fazzoletti ne aveva raccolti molti di più di quello rubato al coach. Dal canto suo, Piz era stato bravo a rimanere presente a quella scena solo con una parte della propria mente, l’altra persa in qualsiasi altro scenario che non fosse quello. Per carità, tutto bellissimo ed emozionante, era contento per i suoi amici anche se era ancora convinto che Ake meritasse decisamente meglio di William (bacini Willino) — era tutto il resto a dargli problemi. Nello specifico: la sua situazione personale. Perché era un egocentrico del cazzo, Morley Peetzah, e non riusciva proprio a non pensare a se stesso. O al fatto che, legalmente, anche lui fosse sposato sebbene delle sue presunte nozze avesse solo pochi e confusi ricordi; l’idea, poi, che quel minchione di Yale non volesse concedergli il divorzio – chissà per quale ragione, poi (perché era divertente così, ecco perché) – lo mandava su tutte le furie. Per lo meno, erano riusciti ad arrivare al comune accordo di tenerlo segreto perché non rendeva gloria e onore a nessuno dei due, quell’unione.
    «Jackson» Ancora al fianco degli eubeech, Piz alzò la testa insieme al prof, ritrovandosi di fronte un uomo che forse conosceva o forse no (non lo so zia, si conoscono?) e che salutò comunque con un cenno educato del capo.
    «ti dona questo colore» ECCO, JADE, VEDI! Guardò subito la Beech, alzando entrambe le sopracciglia: te l’avevo detto.
    E poi non lo so, «beviamo?»

    Nel frattempo, Nelia, aveva cercato di non soccombere ai singhiozzi emozionati perché era pericolosamente vicina ad Akelei e sentiva lo sguardo di tutti i presenti, per forza di cose, anche su di sé. Avrebbe voluto farsi piccola, o muovere almeno dieci passi indietro e nascondersi all’ultimo posto della fila, ma non poteva. Col mento alto e lo sguardo solo leggermente velato dalle lacrime (di felicità, per i suoi amici più cari che coronavano finalmente il loro sogno — e solo in parte di malinconia e tristezza), aveva resistito allo scambio delle promesse come aveva fatto per tutta la vita: con resilienza. Li aveva applauditi, insieme al resto della sala, e si era congratulata con loro subito dopo la fine della funzione.
    Poi si era allontanata, volendo lasciar loro lo spazio di salutare altri amici e parenti e avendo bisogno lei stessa di prendere un boccata d’aria.
    In disparte, al limitare della sala dove si stavano raccogliendo gli invitati per il buffet e le danze, Nelia osservava tutti, registrando qualsiasi cosa le sembrasse fuori posto e rendendosi conto di stare esagerando: stava decisamente proiettando le sue ansie sull’esito della festa, o come avrebbero detto i giovani: se la stava tirando. Doveva smetterla di avere pensieri negativi e concentrarsi sul resto.
    Spostò lo sguardo quando ne sentì uno posarsi sulla sua figura, e credendo di trovare quello di un compagno ribello in cerca di un segnale, o di supporto, rimase per un attimo interdetta quando invece le sue iridi scure si posarono in quelle più chiare di Frederik Faustus. Nulla avrebbe potuto mai raggiungere i livelli di imbarazzo di quel fatidico San Valentino, ma quello ci andava pericolosamente vicino.
    Ricambiò il cenno con la testa, alzando appena il calice stretto fra le dita in un silenzioso brindisi.
    «Mi sembra stia andando tutto benissimo»
    Non aveva sentito la special avvicinarsi, ma non trasalì nel sentire la voce di Mads così vicina: era abituata a nascondere le proprie emozioni, la fu Meisner.
    «Cosa ne pensi?»
    Afferrò una delle tartine offerte da Mads, e annuì leggermente. «sembrerebbe di sì,» magari un altro calice di bollicine avrebbe affogato quel peso all’altezza della bocca dello stomaco che suggeriva tutto il contrario — ma non cedette, tenendosi ben stretta l’unico bicchiere che era disposta a concedersi quella sera, per non rischiare assolutamente nulla.
    Rivolse un sorriso di rassicurazione alla special: l’ultima cosa che voleva era rovinare la festa a qualcun altro con il suo allarmismo. «ma conoscendomi, rimarrò sul chi va la fino al taglio della torta» scherzò su, o forse no. «tu ti stai divertendo? è stata una bellissima funzione, non trovi?» occhi a cuoricino per i suoi besties, erano davvero la coppia dell’anno (del secolo) ed era stramaledettamente felice per loro.
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    PIZ: parla con gli eubeech prima e dopo la cerimonia, poi saluta freddie quando si avvicina, invita tutti a bere
    NELIA: saluta freddie da lontano, parla con mads (se ho dimenticato di interagire con qualcuno scusate)
  4. .
    obliviontober 2023 settimana 1 // mini prompt: "demons"

    UTs82IyosI1geO



    devils, demons... sempre lì siamo. giallo !! perché è il colore associato all'avarizia (CIAO MAMMOT) (e non mamm't) (ma anche?) e niente, too much zhongli lately ELISA I BLAME U tiè vai a cambiare il set del vecchiaccio

    (textures: smilergorl && alkindii)
  5. .
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    Poggiata contro la parete color crema, Nelia portò una mano alla bocca dello stomaco e prese un respiro profondo. Il fatidico giorno era arrivato.
    Erano stati mesi difficili, quelli che avevano preceduto il tanto atteso matrimonio Akerrow, e il mondo in cui stavano vivendo non era più quello che conoscevano, spazzato via in primavera da un conflitto mondiale che aveva ribaltato per sempre l’ordine delle cose.
    I più superstiziosi avrebbero preso molto seriamente quegli eventi, reputandoli di cattivo auspicio per la coppia di futuri sposi, ma non William e Akelei: avevano deciso di andare fino infondo, poiché non sarebbe stato di certo quello a fermarli — e Nelia lo sapeva bene. E forse, infondo, un giorno felice da passare insieme ai propri cari e amici era esattamente quello che ci voleva per risollevare almeno un po’ gli animi e fingere che nulla fosse cambiato. Quella festa, per come era stata pensata e organizzata, era senza dubbio l’evento perfetto per arrivare a tanto: la professoressa aveva come l’impressione che se ne sarebbe parlato a lungo, considerando come Akelei fosse una figura di tutto rispetto nell’organico del Ministero, e William Barrow fosse stato, almeno fino a poche settimane prima, uno dei professori della scuola magica più rinomata in Europa.
    Nelia, dal canto suo, stava cercando in tutti i modi di tenere a bada i brutti pensieri e le ansie nate proprio dalla natura di quell’unione: il Capo dei Cacciatori e il Capo dei Ribelli che giuravano amore eterno davanti a centinaia e centinaia di invitati. Andava da sé che non tutti l’avessero presa bene, eufemismo del secolo, e la Hatford aveva passato lunghe ore seduta di fronte al futuro sposo, che fosse in uno dei loro uffici o al Quartier Generale della Resistenza, osservando lo sguardo scuro dell’uomo mentre rifletteva sulle stesse identiche cose. Era pericoloso, e alcuni erano stati fin troppo onesti con le loro opinioni, e Nelia non era così ingenua da credere che non avrebbero provato a rovinare quelle nozze. Sperava di sbagliarsi, ma aveva comunque chiesto ai ribelli presenti (e, per tanto, fidati) di rimanere all’erta e tenere un’occhio vigile e attento, pronti a segnalare anche il minimo accenno di guai <o>o insurrezione. Non aveva messo al corrente Will della cosa, per non aggiungere altri pensieri a quelli a cui doveva già rendere conto, ma sapeva anche non ce ne fosse bisogno: quasi certamente, i ribelli avevano ricevuto quello stesso ordine anche dal loro leader.
    Ma non era solo quello a stringere una morsa al centro del petto della ex tassorosso.
    Quello di Akelei e William era il primo matrimonio a cui Nelia partecipava da quando aveva perso Justin, più di due anni prima. Inutile dire che non fosse stato affatto facile affrontare la guerra e i preparativi, perciò era stata più che felice di affidarli quasi totalmente al Jackson, e tenere solo i suoi compiti da damigella d’onore — l’idea di ripetere tutto quanto da capo – la scelta del vestito e dei fiori, il colore delle tovaglie e il tipo di torta, il numero di portate della cena e la scelta della musica – l’aveva messa a dura prova sin da subito, e seppur rimanendo vicina ad Ake (e ad Eugene, per assicurarsi che non ne combinasse una delle sue), Nelia aveva preferito fare un passo indietro ed evitarsi altro dolore. Ma nemmeno tutta la preparazione mentale esercitata nelle settimane precedenti era servita a nulla: nel momento stesso in cui aveva messo piede nella location scelta dalla cacciatrice, Nelia aveva smesso di respirare. Tutto le ricordava il giorno delle sue nozze, molto meno sfarzose e in grande stile, decisamente più in linea con Nelia — aveva provato a cacciare via quei pensieri, ma i ricordi erano subdoli e infami e riaffioravano nei momenti meno opportuni, e senza che lei potesse farci nulla.
    Quanto meno, era riuscita a evitare le lacrime, stringendo forte le palpebre e i pugni, fino a sentire le unghie pizzicare contro i palmi serrati.
    Fuori dalla stanza dove Ake stava calpestando il tappeto avanti e indietro in attesa dell’inizio della cerimonia, quindi, cercava di mantenere un controllo ferreo sulle proprie emozioni, la mano ancora poggiata contro la stoffa lilla del vestito e la testa reclinata all’indietro contro il muro.
    Solo una volta certa che la voce tremula non l’avrebbe tradita, bussò alla porta dov’era rimasta di guardia fino a quel momento, e informò la sposa che era quasi ora.
    Poteva(no) farcela.

    Nel frattempo, sul prato dove di lì a poco si sarebbe tenuta la cerimonia, gli ospiti iniziavano ad arrivare, in coppia, in gruppi o in solitaria. Morley Peetzah era tra questi ultimi, estasiato di non avere Bangkok al seguito come succedeva spesso, ultimamente, e allo stesso tempo fin troppo conscio della grande mancanza che sentiva al suo fianco. Non c’era nemmeno bisogno di dirlo ad alta voce, o di pronunciare il suo nome: chiunque, vedendolo, sapeva quanto a Morley Peetzah mancasse avere accanto – in quegli eventi ma soprattutto nella vita quotidiana – Penn Hilton. Il vuoto che la strega aveva lasciato nella vita (e nel cuore) del coach, non era facile da colmare; Piz non ci sarebbe riuscito nemmeno nell’arco di due o tre vite.
    Aveva provato a dimenticare Penn, sapendo (o sperando, comunque) che avrebbe voluto che Morley fosse felice anche senza di lei, ma non ci era riuscito: non aveva trovato nessuno che potesse competere con la Hilton, o che suscitasse in lui tutto l’amore che Penn gli aveva fatto provare negli anni della loro complicata relazione fatta di continui tira e molla.
    Quando William gli aveva fatto recapitare la busta via gufo, in tutta onestà, Morley aveva quasi pensato di inventare una scusa e declinare l’invito; ma non aveva potuto, perché Will era suo amico e perché lui era Morley Peetzah, e avrebbe gelato l’inferno prima che decidesse volontariamente di non prendere parte ad un evento come quello, vittima del suo stato di (uomo solo) single. Quindi si era comunque presentato, capelli biondi tagliati in maniera ordinata e molto corta, completo nero firmato e perfetto, cravatta dorata perché rimaneva pur sempre un golden boy (e fedele ai suoi colori da grifondoro, in un certo senso).
    Era felice per William, ed era felice per Akelei. Si era congratulato con entrambi in svariate occasioni, e non vedeva l’ora di mettere in imbarazzo il Barrow durante la cena — anche se faceva già un perfetto lavoro da solo.
    (Ma forse non l’avrebbe fatto, perché aveva paura della reazione di Akelei.)
    Dopo aver mostrato l’invito al personale all’entrata, Morley si incamminò verso il centro della scena, salutando chiunque gli capitasse di riconoscere sul suo cammino, stringendo mani e baciando guance di maghi e streghe che lo fermavano per una chiacchiera veloce del più e del meno. Non aveva una meta precisa, sapeva ci fosse ancora tempo per prendere posto e attendere l’arrivo degli sposi, perciò ne approfittò per sfruttare la sua rete di conoscenze e attaccare bottone con quello o quell’altro invitato: socializzare, per Morley Peetzah, non era mai stato un problema. Era espansivo e sicuro di sé quanto bastava per permettergli di passare da una conversazione all’altra con facilità e senza battere ciglio, dando l’impressione di esser sempre stato nella discussione anche quando era letteralmente appena apparso dal nulla. Con nessuno, però, si trattenne più di qualche minuto, preferendo variare e passare da un gruppo all’altro e portare il suo sorriso smagliante ovunque capitasse, fino a trovare la conversazione più interessante con la quale intrattenersi fino all’inizio della cerimonia (che, sperava, sarebbe stata a breve).
    «sparisci barry, devo rimanere un attimo da sola con me stessa e le mie emozioni»
    Ed eccolo lì, il la che stava aspettando.
    Puntò le iridi chiare sulla figura fasciata nell’abito viola, e solo distrattamente fece caso al ragazzo che si allontanava dal professore di Arti Oscure. O dalla professoressa? La cosa lo confondeva ancora.
    «la gravidanza ti dona, eugene» non ricordava a che mese fosse, o forse non l’aveva mai neppure saputo: era già tanto che avesse riconosciuto il Jackson in quelle nuove vesti. «e anche il vestito.» che era un modo velato per dirgli che fosse uno schianto con le curve acquisite col cambio di genere, ma lo tenne nascosto dietro l’accenno di un sorriso. Come fosse possibile che Eugene Jackson fosse incinta erano dettagli che Piz non voleva sapere – e che comunque non avrebbe capito, anche se avessero deciso di prendere carta e penna per spiegarglielo con dei disegnini. L’importante era che fosse contento lui, ecco. «come procede?» indicò all’altezza della pancia della donna che aveva di fronte, pensieroso: non era sicuro che al posto di Euge avrebbe preso la stessa decisione, portare avanti una gravidanza sembrava estremamente doloroso e pieno zeppo di difficoltà che Piz non era certo di voler sperimentare sulla propria pella. Ma quel genere di amore che aveva spinto il Jackson ad un tale gesto, si rendeva conto l’allenatore, lui probabilmente non l’aveva mai conosciuto: era stato convinto di sì, con Penn al suo fianco, ma più passava il tempo e più si rendeva tristemente conto di essersi gaslightato da solo, mettendo più anima e cuore in quella relazione di quanto fosse necessario. E forse era stato proprio lui a spingere via Penn, con il suo troppo amore — non l’avrebbe mai saputo.
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    nelia: è fuori dalla stanza dove ake sta finendo di prepararsi, non interagisce con nessuno
    piz: è nel punto dove si tiene la cerimonia, parla con svariate persone (vuoi essere tu?) prima di avvicinarsi a eugene


    Edited by antarctica - 29/9/2023, 14:04
  6. .
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    Morley Peetzah non aveva assolutamente idea del guaio in cui si era cacciato. Zero. Nisba.
    Non aveva il minimo sospetto che qualcosa non andasse, o che ci fosse qualcosa di strano nella giovane donna che stringeva delicatamente, ma con trasporto, al proprio corpo fino a farlo aderire perfettamente al suo; avrebbe dovuto, certo, ma nulla nell'atteggiamento della non-Penn gli dava modo di sospettare alcunché. E vi chiederete: Piz, conosci così poco Penn da non riuscire a riconoscere una pessima imitazione? Beh, Yale Hilton era sempre stato – a malincuore – un perfetto bugiardo; e conosceva bene sua cugina, ma ancora di più, sapeva quali tasti premere e come distrarre il Peetzah, una ricetta disastrosa per quest'ultimo, destinato a cadere nella trappola sin dal primo momento.
    Quindi no, nulla dell'atteggiamento di Penn faceva suonare campanelli d'allarme nella mente del coach. Se proprio, quello che si stava comportando in maniera strana, tra i due, era lui: cosa diavolo gli era saltato in mente, pronunciare quelle due paroline importanti così all'improvviso (o affatto) quando avrebbe potuto benissimo evitare e salvaguardare entrambi dalle (spiacevoli) conseguenze?
    Perché da quello non si tornava indietro, ancora peggio dello scoprire di avere un figlio insieme.
    E dall'espressione congelata di Penn, immaginò che anche lei stesse pensando la medesima cosa: il danno era stato fatto.
    Ottimo, grandioso, perfetto: come rovinare nel giro di qualche istante tutto quello che di buono avevano costruito tra loro negli ultimi tre anni.
    Piz tenne lo sguardo fisso in quello bosco di lei, pur sentendosi fragile come un castello di carte tirato su sopra di un tavolino traballante in bilico sui sanpietrini (un'immagine stranamente specifica) che minacciava di crollare da un momento all'altro.
    Erano state molto rare le volte nella vita in cui Morley Peetzah si era sentito così — vulnerabile, era la sola parola che gli veniva, e la detestava. Esposto, più nudo del giorno in cui era venuto al mondo; aveva tolto il cuore dal proprio petto e lo aveva messo in mano di Penn – di Yale – pur sapendo che c'erano alte possibilità che venisse rifiutato. O peggio, distrutto. Perché non aveva dubbi, Morley Peetzah, sul fatto che Penn potesse ricambiare i suoi sentimenti, ma sapeva anche bene che non fossero il genere di coppia che andava sbandierando suddetti sentimenti a cuor leggero. E il fatto che lui lo avesse fatto, e proprio in quel momento, cambiava tutte le carte in tavola.
    Tentò di scacciare via tutti quei pensieri, lasciando che Penn nascondesse il viso contro la sua spalla, ma non riuscì a rendere i gesti meno meccanici, o a tranquillizzare il tamburo nel petto. Persino il «pensavo non me l’avresti mai detto» di lei non fu sufficiente per calmarlo, ma anzi generò una nuova serie di pensieri e paturnie, come: non pensavo nemmeno io di dirlo mai oppure perché non l'hai detto anche tu. Avrebbe accettato persino un “grazie”, brutale e onesto, alla Holly Golightly, piuttosto che quel silenzio.
    Perché non aveva dubbi, il coach, che Penn non avesse altro da dire a riguardo, e ne ebbe conferma quando lei gli passò dolcemente le labbra sulla guancia, e niente più. Morley socchiuse gli occhi, strinse le labbra e si maledì per essere stato un coglione. Un coglione onesto e coraggioso, ma pur sempre un coglione.
    Aprì gli occhi solo per osservarla, suo malgrado, piroettare via incapace di tenerla stretta a sé perché preso contropiede da quella leggerezza con cui stava calpestando i suoi sentimenti, eppure non le disse nulla, perché non voleva rovinare ancora di più le cose. Lasciò lo sguardo azzurro incollato alla figura esile di lei, studiando ogni gesto semplice e ogni sospiro, ogni sorriso e ogni battito di ciglia; almeno, in tutto quello, aveva la dannata certezza di aver detto la verità, di amarla davvero, pur dovendo fare i conti con tutto il resto. Poteva farselo bastare.
    Poteva?
    Ma si, magari avrebbe trovato un modo diverso per farsi perdonare.
    Doveva farsi perdonare? Forse. Era uomo, dopotutto: avevano sempre qualcosa di cui farsi perdonare.
    «a noi?»
    Si strinse nelle spalle, lasciandola fare: chi era lui per negarle ad entrambi un sorso (o dieci) con cui magari sciacquare via tutta quella situazione. Comandò alle sue gambe di muoversi, reputando di essere rimasto impalato come uno stoccafisso per fin troppo tempo, e la raggiunse, senza però avvicinarsi troppo; voleva ancora testare un po' il terreno e capire dove fossero in quel preciso istante della loro storia, sempre un enorme punto interrogativo per tutti, i carbs per primi.
    «dovremmo -» Seguì un silenzio — un altro. Piz rischiava di esplodere, non era certo di poter resistere ancora a lungo. «Penn–» dì qualcosa ti prego.
    In quegli occhi verdi intenti a specchiarsi nei suoi, per un attimo, Piz credette di leggerci qualcosa di molto simile alla speranza; o forse era solo ciò che desiderava leggerci.
    Sospirò, e allargò comunque le braccia per accoglierla laddove era certo di averle dimostrato di poter avere sempre un posto, in quel momento e in futuro. Lei non accolse l'invito, rimanendo invece di fronte a lui, seria e inamovibile. «lo sai, vero?» No, non sapeva più un cazzo di niente, il Peetzah, se non che avesse fatto uno sbaglio. L’ennesimo della vita.
    Ma quando Penn strinse le sue mani nelle proprie, pensò che forse – forse – per una volta, la sua audacia sarebbe stata ripagata. Lo voleva ardentemente. «che ti amo»
    E in un attimo, tutto quello che Piz aveva desiderato – negli anni, ma soprattutto in quegli interminabili minuti – lo investì in pieno, togliendogli il respiro e allo stesso tempo donandogliene uno del tutto nuovo. Non riuscì ad impedire al sorriso di sollevare gli angoli delle labbra, ed illuminargli il volto; non ebbe nemmeno il tempo di rispondere, di dirle che sì, lo sapeva, ma era bello sentirglielo dire e confutare ogni stupido dubbio mai avuto. Poté solo sollevarla, incrociare le mani sotto i suoi glutei per tenerla stretta a sé, e avanzare fino a trovare il bordo della scrivania, dove la invitò a sedersi mentre lei si dedicava con particolare attenzione ad una serie di baci lasciati lungo tutto il collo, fino a salire all'orecchio.
    «perchè non ci sposiamo e basta?»
    A Piz, mancò un battito. O svariati.
    La staccò appena da sé, per guardarla negli occhi e domandarle, senza fiato ma solo con lo sguardo, se fosse seria. Se lo volesse davvero.
    Si domandò la stessa cosa, e quando riprese a baciarla, incapace di starle lontano per più di qualche secondo, ebbe la conferma: sì, lo voleva. Voleva sposare Penn Hilton, l'aveva sempre voluto, e forse era stata la paura di poterla perdere – ancora; definitivamente – a non farlo mai agire.
    «Non ho un anello,» un pensiero coerente, soffiato sulle labbra arrossate di Penn, il respiro irregolare e il battito accelerato all'idea che il matrimonio fosse una possibilità reale e concreta. «Dobbiamo cercare il luogo, e dirlo alle nostre famiglie.» I Peetzah, ne era certo, non aspettavano altro; agli Hilton, temeva, non sarebbero stati altrettanto entusiasti.
    Ricominciò a baciarla, perché il trasporto dimostrato da Penn non era passato inosservato e, soprattutto, aveva decisamente risvegliato i bollenti spiriti del coach, mai del tutto sopiti, e non aveva la minima intenzione di perdere quel momento o l'occasione di avere Penn all'interno del suo ufficio e realizzare così uno dei suoi (loro?) sogni proibiti. «Sposami, Penn.» Ora che lo aveva detto, ora che aveva detto tutto, sentiva che nulla avrebbe potuto impedirgli di ottenere quello che desiderava, e renderlo felice. Non aveva mai avuto dubbi che Penn fosse quella giusta, o che lui fosse quello giusto per lei; ma aveva avuto paura, perché aveva perso fin troppo Morley, e non aveva voluto arrischiarsi in quei pensieri sapendo che c'era il rischio concreto di vederli sgretolarsi davanti ai suoi occhi.
    Ma con Penn stretta alle sue braccia, il suo corpo a schiacciarla delicatamente contro il legno della scrivania, e dei baci che si facevano sempre più caldi e desiderosi, Morley Peetzah non aveva più dubbi di nessun tipo.
    fool me once: shame on u
    fool me twice: that's just fucked up
    you know I'm dumb as hell, c'mon
  7. .
    I give it all my oxygen,
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    morley peetzah
    29 | piz | chudley cannons' coach
    Morley Peetzah era il genere di uomo che sapeva benissimo ciò che voleva, e allo stesso modo sapeva ciò che non voleva: parlare con il fidanzatino di sua sorella diciassettenne della foto compromettente che aveva appena beccato nella cartellina del Bolton.
    Che poi: che ci faceva una foto del genere tra le cose di lavoro? La teneva tipo santino, da guardare con aria sognante tra una pausa e l'altra? Ugh. Mica lui aveva foto di Penn nascoste nella sua, di cartellina — non gli aveva insegnato proprio niente, a quel Bolton.
    Lo fissò con le iridi azzurre ridotte a due schegge di ghiaccio dietro le palpebre socchiuse, l'espressione più indecifrabile del mondo a piegare gli angoli delle labbra e a marcare l'aria terrificante che, sperava, avrebbe terrorizzato almeno un po' l'altro grifondoro; che, dal canto suo, non alzò lo sguardo sul maggiore ma lo tenne incollato agli appunti come se da quel gesto dipendesse tutta la sua vita.
    E, in parte, era proprio così: perché se avesse incontrato lo sguardo di Morley in quel momento, sarebbe morto per via dell'occhiata assassina che il coach gli stava riservando.
    Mh.
    Mhhh.
    Dunque era quello il gioco a cui voleva giocare? Ok, ok: Morley poteva accettarlo, anche perché, come già ampiamente sottolineato, non moriva dalla voglia di conoscere i dettagli della relazione tra Pepperoni e il Bolton: voleva solo strangolare quest'ultimo per aver osato mettere le mani addosso alla sua sorellina, ma c'era un luogo e un tempo per farlo, e non era quello.
    Forse proporre ai Cannoni di incastrarlo contrattualmente con loro era la giusta tecnica: “tieni gli amici vicini, e i nemici ancora di più”, no?
    «sì certo, io ho fatto 1+1-1 solo una volta da quando ho iniziato a giocare»
    E Morley, che a quella partita era stato presente (come a tutte le altre giocate da Grifondoro nelle ultime tre stagioni): «già» meglio sorvolare su quella triste pagina della storia quidditchistica rosso-oro.
    «e sto affinando anche la tecnica #30»
    Un sopracciglio biondo svettò verso la fronte, a quel commento, confuso ma intrigato. «fammi sapere quando ti sentirai abbastanza confidente al riguardo» possibilmente entro settembre quando, diploma e società permettendo, avrebbe schiaffato un contratto sotto il naso del Gigante per legarlo alla società dei Cannons per almeno tre stagioni — poi si sarebbe visto, magari l'avrebbe portato con sé verso altri lidi se si fosse presentata la giusta occasione. Ma non voleva perderlo di vista: sarebbe diventato (l'incubo di Julian) un falco per assicurarsi che non commettesse passi falsi di alcun genere. Joni poteva anche essere Joni, ma Morley rimaneva il suo fratellone e, in quanto tale, rientrava implicitamente nei suoi doveri quello di proteggerla anche (e soprattutto) da potenziali cuori infranti.
    O peggio: nessuno voleva un baby jujoni in giro per l'Oblivion.
    (Dylan sì, Dylan lo vuole. PRENDETE NOTA, GRZ.)
    Ma tornando al motivo per cui erano sul campo quel giorno: la prossima partita, quella contro i Gunners di Elwyn Huxley.
    A quanto pareva, il sostituto di Duffy sarebbe stato Bugs: o erano nomi in codice che Morley avrebbe dovuto comprendere (o, in alternativa, slang gen z sconosciuto al coach) oppure i Gunners erano davvero una squadra di pagliacci come Piz continuava a sostenere.
    Più probabile la seconda, con pochissime eccezioni. E tutte, non a caso, uscite dalla sua scuola quidditchistica. MPF!
    «ma è più giovane, inesperto, meno tecnico, gli interessa molto...» lo esortò a continuare con un cenno della mano: ma che era tutta quella suspence? «...mettersi in mostra; fa molti falli, batte forte e di solito punta alla testa» quindi il giocatore perfetto per il gioco di Huxley, una vergogna per tutto il Quidditch: Piz già lo odiava.
    L'aveva visto giocare in poche occasioni, e tutte le volte aveva finito con l'inveire contro l'arbitro affinché richiamasse Bugs per gli atteggiamenti e il suo gioco sporco.
    «Huxley sta puntando chiaramente alla violenza, la sua unica arma, perché ha solo due giocatori bravi abbastanza da poterci dare davvero filo da torcere,» la chiave di lettura per quella partita, Piz l'aveva già trovata da un pezzo: ed era profondamente convinto di quei pensieri. Il numero di gol fatti o di punti guadagnati per boccini presi non gli avrebbe fatto cambiare idea.
    E poi, Morley credeva nei suoi giocatori: potevano anche essere gli sfavoriti, sulla carta, ma avevano molto da dare, contrariamente ai Gunners che avevano solo falli dalla loro parte, tsk.
    Si strinse nelle spalle e puntò lo sguardo verso gli anelli.
    «Sono cose che sapevamo già.» Poi, con molta calma, lo riportò sul Bolton: voleva che percepisse la sua stabilità emotiva anche in vista della partita che li attendeva.
    Che poi fosse del tutto finta e tirata su solo per convincere anche se stesso che potevano farcela, era un altro paio di maniche. «È così che sono arrivati in cima alla classifica,» altro che gol e gol, tsk, «mq noi non ci abbasseremo ai loro livelli.» Davanti uno o due falli tattici del tutto regolari Piz poteva chiudere gli occhi, ma non avrebbe permesso nulla più di un blurting o un blatching. «Voglio sia chiaro.» E lo aveva già ripetuto alla squadra, svariate volte in previsione dell'incontro.
    Nonostante non avesse pensato ad altro nell'ultima settimana, More si rese conto di aver passato troppo tempo a pensare a ciò che non aveva più, piuttosto che a concentrarsi sul gioco e sulla formazione che avrebbe portato in casa dei Gunners; non poteva più lasciarsi distrarre dai pensieri su Chelsey e su Bells, doveva darsi una svegliata e pensare alle cose importanti, con le quali provare quantomeno a dare del filo da torcere agli Onnipotenti — guh, giusto un montato come Elwyn Huxley poteva chiamare la propria squadra in un modo tanto presuntuoso.
    Buttò uno sguardo al foglio su cui Bolton aveva stampato la sua manona, sopracciglia bionde inarcate, incuriosito – ma non troppo – da ciò che il suo tirocinante stava per illustrare.
    «c'è questa cosa che io e Joni facciamo spesso quando siamo da soli»
    Aveva scelto un pessimo momento per prendere un sorso di acqua dalla propria borraccia: gli andò di traverso alla prima frase pronunciata dal ragazzo.
    «Bolton…» non voleva proprio arrivarci, a questo maledetto diploma, eh…
    «secondo i miei studi, partono dall'idea che la miglior difesa è l'attacco. Noi invece partiremo dall'idea che il miglior attacco è la difesa»
    Morley non era molto d'accordo con quella filosofia: non gli era mai piaciuto giocare in difesa, anche con ampi margini di vantaggio non aveva mai cambiato il modulo per chiudersi nella propria metà campo e lasciare che fossero i Cercatori a chiudere la partita, mentre il resto della squadra cercava di mantenere il punteggio senza provare a segnare ancora e ancora.
    Arricciò il naso, ma gli fece comunque segno di continuare.
    «l'idea è far arrivare al tiro non il nostro miglior tiratore, ma il nostro peggior tiratore nelle migliori condizioni possibili»
    Co…cosa.
    Era una follia.
    Piz cercò comunque di seguire la spiegazione di Julian, sguardo confuso e un punto interrogativo disegnato in ciascuna iride chiarissima, ma aveva capito solo una cosa: Julian Bolton era pazzo.
    E non pazzo alla “mister, ti tiro fuori dal cilindro un fottuto coniglio che ci farà diventare capolista”, purtroppo.
    Pazzo e basta.
    «abbiamo una, forse due possibilità per utilizzare questo schema in partita, non molte, ma così possiamo saltare il primo pressing e disorientare la loro difesa. Potrebbe valere la pena provarci»
    Era disorientato Piz, figuriamoci come avrebbero reagito gli avversari.
    «Quindi fammi capire,» si girò per tre quarti verso il tirocinante, abbassando la cartellina (prima di rischiare di dargliela in testa), «il tuo suggerimento è affidarsi completamente a Colin» [derogatory] «e pregare nel miracolo?» Era…. un piano. Non il migliore, ma come aveva detto Bolton bastava utilizzarlo un paio di volte per destabilizzare i Gunners e poi fare leva su quello per le manovre successive. «W pregare anche che Colin sappia cosa sia, una julseverne cosa su cui Piz non avrebbe messo la mano sul fuoco, «o che “il nostro peggior tiratore” riesca davvero ad imbucare una Pluffa anche da distanza ravvicinata» altra cosa su cui Piz non si sentiva molto confidente: c'era un motivo se Colin non era uno dei Cacciatori titolari.
    Alzò lo sguardo verso il cielo, pensieroso.
    «Sai cosa?» Folle per folle, tanto, «vale la pena fare un tentativo. Se vediamo che tutto il resto non funziona, proveremo con una…mh, la chiameremo Newport, così quando la chiameremo in partirà gli avversari non avranno idea di cosa significa.» Diede una pacca sulla spalla di Julian, sempre convinto fosse un po' fuori di zucca, ma apprezzando il tentativo. «Preferisco ancora gli schemi e le giocate classiche, l'attacco alla difesa, ma—» sono abbastanza disperato da accettare tutto? «è una soluzione abbastanza folle da avere del potenziale, bravo Bolton.»
    Ne aveva ancora di partite da vincere per diventare come il Peetzah, ma vedeva del potenziale.
    I'll get over it;
    I just gotta be dramatic first
  8. .
    1993
    coach
    gryff
    where do we go from here?
    tell me,
    do we get what we deserve?
    you let your feet run wild,
    time has come as we all, oh, go down
    Preso com'era dai suoi pensieri, Piz non si era minimamente accorto di non essere più da solo in quella porzione di cortile tranquilla e appartata.
    Era raro che si ritirasse così tanto nelle proprie riflessioni da isolarsi dal resto del mondo — non era di certo quel genere di persona, meditativo e frequentemente assorto in pensieri profondi, ma le recenti vicissitudini avevano cambiato persino lui, sotto quel punto di vista: riteneva fosse inevitabile, che dovesse per forza succedere quando la tua pupilla - nonché sorellina di cuore - partiva per la guerra e tornava avendo perso per sempre la magia, e non solo. O, più in generale, quando il mondo veniva ribaltato e ogni certezza mai avuta fino a quel momento veniva meno: trent'anni di vita e poi bastava un mese di conflitto per far cambiare tutto. Era abbastanza egoista, il Peetzah, da farla diventare anche una questione sua, quella lì, pur non avendo attivamente preso parte agli scontri.
    Era, dopotutto, un cittadino del mondo anche lui, no? Era suo sacrosanto diritto quello di lamentarsi di qualcosa – piangersi addosso era fuori discussione, anche se tutti quei sospiri e quelle occhiate rivolte al cielo ci andavano pericolosamente vicino.
    Nemmeno a dirlo, a Piz non piaceva quel nuovo Piz; era abituato al vecchio, il grifondoro audace che affrontava ogni problema di petto e senza rimuginare troppo sopra il da farsi; quello che prima agiva, poi forse pensava.
    Quello che “ma sì, dai, cosa vuoi che sia, ora lo risolviamo alla vecchia maniera”.
    Ma non c’era “vecchia maniera” che tenesse, quella volta; quello non era un problema che Morley potesse semplicemente prendere a pugni, o sfidare sul campo da Quidditch; non aveva alcun tipo di munizione per affrontarlo, né armi per difendersi.
    E non c'era cosa che lo facesse stare peggio del sentirsi impotente.
    Non era affatto abituato a quella sensazione, ad avere le mani legate e zero possibilità di fare alcunché di utile.
    Si passò il palmo aperto sul volto, sospirando e al contempo cercando di perdere l'aria misera avuta fino a quel momento e acquistarne una che rispecchiasse di più il vecchio se stesso — quello che voleva continua ad essere, in barba a tutto il resto.
    Alla donna in piedi di fronte a lui, dopo qualche minuto di impacciato silenzio, rivolse un sorriso made in Peetzah, e un cenno col capo. «Mi dispiace, vado via subito» si detestava a priori per quel pensiero, ma non poteva negare che , l'avrebbe preferito di gran lunga al farsi vedere avvilito e sconfitto, un atteggiamento lontano anni luce da quello del campione che era.
    Ma non era un bastardo, e non avrebbe cacciato via la donna.
    Scosse appena la testa, quindi, rivolgendole un cenno con la mano. «c'è abbastanza posto per entrambi,» le disse, facendo salire gli occhi lungo il corpo della sconosciuta e immaginando, stando al camice, che fosse una dei medimaghi dell'ospedale. «si accomodi pure»
    «di solito non c’è mai nessuno… ed ero pensierosa, non mi sono accorta ci fosse lei» Un sorriso amaro piegò le labbra del coach. «L'avevo scelto proprio per questo motivo,» spiegò indicando con una mano l'area intorno a loro, «perché era tranquillo e solitario.» Provò a tirare le labbra affinché il sorriso si facesse più convincente, per sembrare meno rigido di quanto non fossero suonate le sue parole; stando agli occhi lucidi e arrossati del medico, avevano entrambi bisogno di quello spazio.
    Chi era lui per privarla del suo luogo di pace, quando era ovvio che fosse lui l'intruso?
    «a questo punto sono io a doverle offrire le mie scuse,» non davvero, ma gli piaceva mantenere le apparenze, «e chiederle il permesso di poter rimanere.» ancora un sorriso, un po’ più sentito di prima, e un po’ più bugiardo: non voleva che la donna leggesse tristezza o commiserazione nella sua espressione, tanto valeva darle altro su cui soffermarsi – e perché proprio l’aria da golden boy che rifilava costantemente ai giornali, e che l’aveva salvato in più di un’occasione. «mi bastano altri cinque minuti–» e poi potrò tornare a fingere che sia un giorno come tutti gli altri, o così voleva convincersi.
    everythinghaschanged
    morley peetzah
    So casually cruel
    in the name of being honest
  9. .
    1993
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    Puntò lo sguardo azzurro verso il cielo limpido, Morley, sfidando la luce del sole a bruciargli le retine, e distogliendolo solo quando il fastidio si fece insopportabile; a quel punto, allora, imprecò.
    Perché era un maledetto stupido — e non sapeva, di preciso, cosa volesse dimostrare con quella stupidaggine, ma qualcosa bruciava nel petto e imponeva di essere ascoltata.
    Avrebbe voluto dire di non riconoscere quella sensazione, ma sarebbe stata una bugia: di cose stupide nate da un capriccio, Morley Peetzah, ne aveva fatte così tante da poterci scrivere su un libro (tale padre, tale figlio); inutile dire che la maggior parte di esse non fosse andata a finire bene. Ma erano tutte storie! Cose belle da raccontare, su cui ridere e di cui farsi vanto.
    Quella invece — quella era dettata solo da dispiacere, e lutto, e voglia di urlare e fare qualsiasi cosa pur di poter capire, di mettersi nei panni di qualcuno che non aveva avuto scelta, o forse sì ma aveva deciso di compiere quella che aveva reputato giusta, non potendo immaginare le conseguenze delle sue azioni. Gli ricordava giusto qualcuno. Ah, Arabells: così simile a lui, più di quanto alla piccola Dallaire sarebbe piaciuto ammettere.
    Massaggiò gli occhi, il coach, strizzandoli fino a vedere solo macchie senza forme dietro le palpebre serrate. Come Bells. Di nuovo. Il miracolo, la magia, che le aveva ridato la vista era venuta meno nel momento stesso in cui le vene della ex Arpia si erano riempite di un tipo di magia diverso — era tutto un fottuto casino.
    Lo era già da un po', in effetti, ma giorno dopo giorno non faceva che peggiorare, quando si tiravano le somme e si faceva la conta, e la stima, dei danni.
    Le oltre sei settimane di conflitto erano state terribili, e no, non solo perché il campionato era stato interrotto: aveva un solo pensiero fisso, il Peetzah, è vero, ma non era così superficiale. Non più. Si era domandato spesso, nel corso di quel mese e mezzo, se anche lui avrebbe fatto la stessa scelta di Bells, di Wyatt, se ne avesse avuto la possibilità; se non avesse avuto Bang. E più di una volta era rimasto ad osservare il soffitto a corto di parole per formulare una risposta da dare a se stesso. Forse sì, forse no; impossibile dirlo. Ma ora che vedeva le conseguenze a cui erano andati incontro coloro che avevano combattuto per fermare il folle piano di Abbadon, forse egoisticamente era felice di non averlo fatto; non era mai stato una persona moralmente perfetta, Morley, e lo sapeva, ma non trovava così sbagliato pensare a se stesso in un momento in cui tutto intorno a loro bruciava e cambiava. Aveva perso già tanto, in trent'anni di vita, e di recente aveva perso ancora, la sua vita era stata ribaltata di punto in bianco quando Penn aveva deciso di prendersi del tempo e l'aveva lasciato solo con Bangkok; non avrebbe sopportato altri cambiamenti, eppure doveva accettarli.
    Perché quando aveva ricevuto la telefonata dell'Holland, Piz non aveva capito; quando aveva saputo che Bells fosse viva ma avesse perso di nuovo la vista, non aveva capito. Era dovuto arrivare fino al San Mungo per toccare con mano quelle nuove realtà, per far sì che il criceto in catalessi nascosto sotto i corti capelli biondi, salisse sulla ruota e cominciasse a correre, a far girare gli ingranaggi per permettergli di collegare i puntini; e la prima cosa che aveva pensato, era stata riguardo l'irreversibilità di quanto successo.
    E che fosse contento non fosse capitato a lui; non avrebbe perso di nuovo il Quidditch, anche a costo di dovercisi aggrappare in favore della proprietà integrità morale.
    Ma era stato egoista, e un coglione, e si sentiva in colpa; perché era Bells, ora, che rischiava di perdere tutto e lui non sapeva come aiutarla. Aveva già chiamato Elijah? Doveva farlo lui? Passò la mano sui capelli, reclinando la testa, e sistemandosi meglio sulla panchina del cortile dell'ospedale: era ancora lì, nonostante l'orario di visita mattutino fosse terminato da un pezzo, perché non sapeva dove altro andare. Il campionato non sarebbe ricominciato, c'era troppo da ricostruire e da capire, e Bangkok era a scuola; poteva tornare all'AFC, ma voleva stamparsi un sorriso di circostanza e scambiare convenevoli con gli iscritti della palestra? No.
    Così rimase lì, braccia larghe sullo schienale della panchina, e palpebre abbassate sugli occhi lucidi.
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    vi mancavano le mie role libere ehhhh. scusate, avevo un po' di feels post quest incastrati in gola ciao
  10. .
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    29 | piz | chudley cannons' coach
    «allora, prima di tutto…» Piz buttò un’occhio alla cartellina del grifondoro, incuriosito. Aveva davvero bisogno di sapere qualcosa in più, qualcosa che non sapesse già, qualcosa con cui rovinare la vita di — «cos’è quella.» gli si era gelato il sangue nelle vene, quando aveva posato lo sguardo su quelli che decisamente non erano appunti sui Gunners. «bolton c’era una minaccia neppure poi così velata, nel modo in cui Morley aveva pronunciato il nome del minore, sguardo che lentamente saliva verso il suo viso e mente che cercava di dimenticare quell’immagine ormai stampata a fuoco dietro le sue retine.
    Non era uno stupido, Morley Peetzah, contrariamente a quanto in molti sostenevano, e sapeva che di certo i due ragazzini non passavano il loro tempo a guardarsi negli occhi, quando erano insieme ma avere le prove della relazione della sua sorellina col Bolton, piazzate direttamente sotto il naso, era un po’ troppo. C’erano cose che un fratello maggiore non voleca sapere ma che era destinato a scoprire comunque.
    Quando Julian alzò lo sguardo, lo trovò dunque già intento ad osservarlo con una luce gelida (e vagamente omicida) negli occhi, e le nocche bianche strette intorno alla cartellina che lui stesso teneva in mano. «bolton.........»
    «allora! Queste-»
    UGH!! Ma che faceva, cambiava discorso? Insabbiava le prove?? Maledetto.
    Piz fu tentato di strappargli i fogli dalle mani e cercare la foto incriminata, sventolarla sotto il naso del portiere e pretendere che gli desse delle spiegazioni. Ma sapete cosa? Sapete cosa? Non le voleva. Non davvero. Mai. Zero. Era meglio che Morley non sapesse quello che sua sorella e Julian Bolton facevano nel loro tempo libero, oppure avrebbe commesso un grifondoricidio — il Bolton gli piaceva, gli piaceva davvero, ma doveva sforzarsi di non pensare dove avessero toccato quelle manone enormi oppure avrebbe perso la calma e l’avrebbe strangolato lì sul posto.
    Meglio pensare ai Gunners, per ora. Almeno poteva sfogarsi inveendo contro di loro, e contro il fottuto Elwyn Huxley. Già solo il pensiero che quelli fossero “in cima al campionato” lo mandava su tutte le furie: non ci stava, non ci stava!, a vedere l’ex corvonero trionfare. Avrebbe voluto essere felice per Bells, ma non ci riusciva: si sentiva ancora un po’ tradito, nonostante fosse stato lui il primo a mollare le Arpie per ragioni legate ad incomprensioni con la società, ma lei aveva scelto Elwyn. E continuava a sceglierlo tutte le volte. Sorelle, sorelle, e poi...
    «media gol subiti a partita: 33»
    Sospirò, alzando gli occhi verso il cielo e osservando tristemente gli anelli in lontananza. Quello era, invece, il cruccio dei Cannoni, purtroppo: i gol subiti. Avevano una delle difese peggiori dell’intero campionato, e riuscivano a salvarsi solo grazie al lavoro di cacciatori e cercatore, che, quantomeno, impedivano alla squadra di affogare sotto il peso dei punti persi subendo così tanti gol. Si domandò, distrattamente, se Julian Bolton era davvero la persona adatta per andare a coprire quel ruolo così critico nella squadra di Piz. Voleva sperarci — non avevano molte altre alternative, e già sentiva aria di fregatura per il prossimo mercato. «spero la tua media sia, in percentuale, molto più bassa, bolton avrebbe continuato a porre eccessiva enfasi sul suo nome per tutta la giornata, era deciso.
    «il loro punto forte, però, non è né l’attacco né la difesa: sono i battitori»
    Sospirò di nuovo, il maggiore, passando la mano libera sui capelli biondi. Lo sapeva bene. Non erano gli unici a preoccuparlo, onestamente, nella rosa dei Gunners, ma lo tenevano sveglio fino a tardi la sera, testa bassa sui fogli e schemi per contrastarli scritti e cancellati più e più volte. Da qualsiasi punto la guardasse, vedeva già una sconfitta: e si odiava, perché lui non perdeva mai, non senza aver prima giocato, comunque. E invece per quella partita temeva già il peggio, per qualche assurda ragione.
    Una ragione che conosceva anche, ma alla quale non voleva pensare; perché lasciare che fossero i sentimenti e le emozioni ad avere la meglio sarebbe stato deleterio, per lui e per i Cannoni. Doveva pensare lucidamente e non lasciarsi coinvolgere troppo dal chi avrebbe giocato contro di loro la prossima partita. «e ovviamente Chelsey è…una furia, lo sai». Ecco, appunto.
    Mannaggia.
    «Già.» Come dimenticare il gioco duro e preciso della Weasley. DI certo, non avrebbe potuto farlo lui; lui che le aveva offerto un posto nelle Arpie ancora prima del diploma, lui che le aveva rimesso in mano la mazza rinforzata e promesso il posto in squadra che si meritava; lui che l’aveva vista crescere e migliorare sul campo, andandone ogni giorno sempre più fiero. Lui, che ne era sempre stato orgoglioso un po’ di più senza sapere davvero perché, se non giustificando quel sentimento con un banale “mi rivedo in lei, quando avevo la sua età”, sia nell’atteggiamento che nel gioco.
    Eh già, bella merda. Lo aspettava una partita davvero difficile, ma come un vero professionista non avrebbe lasciato trapelare nulla. Zero. Nisba. Meglio davvero pensare ad altro. «sappiamo già chi sostituirà Duffy?» era importante sapere il secondo battitore, per poter anticipare i nuovi schemi — o per mettere fuori gioco anche lui. Cosa? Cosa.
    Picchiettò con un dito sotto al mento, pensando a come poter sfruttare quello sbilanciamento in attacco. Sì, il brookedavies era un’idea, ma forse potevano puntare a qualcosa di meglio, forse potevano addirittura rischiare la giocata con un cometa — rischioso, decisamente rischioso, ma avrebbe spaccato in due la squadra dei Gunners e costretti a fare una scelta tattica precisa e — «ah, poi il cercatore... eh, vabbè, lei è forte»
    Battè un paio di volte le palpebre, riportato alla realtà dalla voce del Bolton.
    Ma faceva sul serio?
    «hhhhHHH»
    Sventolò la cartellina a mezz’aria, frustrato: non doveva di certo dirlo a lui che il cercatore dei fottuti Gunners fosse forte. L’aveva vista giocare anche quando le era stato fisicamente impossibile farlo, quando volava su scope giocattolo insieme a lui e a Elijah, e sognava già in grande. Non dovevano di certo spiegae a lui chi fosse Arabells Dallaire.
    Traditrice.
    Sua sorella.
    La sua pupilla.
    Maledettina.
    Un sospiro. Poi un altro, più forte e più sentito. Mannaggia anche al Bolton, aveva fatto un buon lavoro e Piz non poteva negarlo. Lo osservò con aria indecifrabile, studiandolo con attenzione. Lo sapeva bene che il Bolton preferisse il gioco allo spionaggio, l’azione piuttosto che la teoria, l’adrenalina della partita alla stanchezza degli allenamenti; e sapeva anche che Julian puntasse al posto di Portiere, non a quello di vice allenatore — ma non poteva negare, il Peetzah, che sapesse farlo comunque. In quello che faceva, Julian Bolton ci metteva sempre il cuore e tutto se stesso. Ecco un altro dei motivi per cui non lo aveva ancora minacciato di lasciare Joni: come cognato, infondo, rischiava di beccare di peggio.
    «le formazioni ufficiali non sono ancora uscite,» e non lo avrebbero fatto prima di un paio di giorni, ma loro dovevano muoversi in anticipo, «però possiamo prevedere qualche nome e qualche sostituzione e creare nuovi schemi per contrastare la loro offensiva,» i Gunners potevano anche rischiare di farsi trovare sbilanciati, ma segnavano comunque più gol di tutte le altre squadre, e i Cannoni ne subivano fin troppi, «il nostro scopo è impedire il più possibile che prendano la pluffa» oppure farsi il segno della croce, «e impedire anche che arrivino in zona tiro» doppio segno della croce. «l’alternativa è far fuori qualcuno sfruttando i nostri battitori» ma non potevano competere contro la Weasley, pur senza sapere chi sarebbe stato il sostituto certo di Duffy, «ma il gioco sporco in campo non mi piace» fuori? tutto era lecito; ma in campo non si sarebbe abbassato al livello di Huxley. E sperava nemmeno Chelsey. «hai qualche suggerimento? Sono tutto orecchie.» Quantomeno, parlare del gioco gli aveva fatto dimenticare (per il momento!) della maledetta foto nascosta tra i fogli.
    I'll get over it;
    I just gotta be dramatic first
  11. .
    when & where
    28.03.93, london
    what
    coach, dad
    who
    piz
    Maledetto Amos che non voleva dargli la caramella. DANNATO!!
    OK, ok. More ce l’avrebbe fatta anche senza caramella.
    Chiuse gli occhi e iniziò a fare piccoli saltelli sul posto, poi a muovere la testa di lato per scaldare i muscoli del collo, e infine prese ad agitare le braccia nei gesti tipici del riscaldamento e dello stretching. (+2 oblinder style)
    Lì finiva il divertimento e iniziavano le cose serie.
    Era Morley Peetzah.
    «Sono Morley Peetzah.»
    Era un campione.
    «Sono un campione.»
    Poteva farcela.
    «Posso farcela.»
    Quando riaprì gli occhi, c’era il fuoco della determinazione a bruciare nelle iridi azzurre. «Lo radiamo al suo questo stupido stand.»
    Il proprietario: eye mouth eye
    Rimise entrambe le mani intorno alla mazza rinforzata, la strinse per bene un paio di volte per assestare la presa e poi inchiodò con lo sguardo il tizio. «Lancia.» Quella volta non avrebbe sbagliato. Ne andava di ben di più della sua reputazione: ne andava del suo orgoglio. Non avrebbe perso contro un giochino truccato, non ci stava! Non erano quelli i piani.
    «Ora ti faccio vedere io come-»
    «oddio! MA! quelli erano tua sorella e un ragazzo???»
    «COSA?? DOVE??» Uno swing di riflesso, prima di mollare la mazza e voltarsi nella direzione generica indicata da Amos. «Quale sorella!! Quale ragazzo!!!!» Poteva solo sperare che intendesse Olive e non Joni. Ma lo sapeva fin troppo bene, Piz, che Liv non si sarebbe fatta beccare al Wicked nemmeno sotto maledizione Imperius. «BOOOOLTOOOOON.» Minchia, lo avrebbe distrutto con le sue mani.
    «Amos, vieni con me.» Prese il minore per un braccio, e fece per tirarlo via, quando una voce alle sue spalle lo richiamò. «Che c’è.» Aveva cose importantissime da sistemare, possibile che non se ne rendesse conto?! «Il suo peluche... Ha vinto....»
    «Cosa.» Un ruggito, a pochi passi dal suo viso. Aveva vinto il peluche.
    (O, forse, l’altro glielo aveva ceduto per disperazione.)
    «AMOS, HO VINTO!» Afferrò il premio, stringendolo in un abbraccio stritolante con entrambe le braccia, e lo mostrò tutto soddisfatto al babysitter.
    Tuttavia, le questioni importanti rimanevano. «Andiamo a vedere se sa mordicchiare le braccia di studenti allampanati che allungano un po’ troppo le mani..................»
    morley
    Peetzah
    I give it all my oxygen,
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    e la chiudiamo così CIAO AMOS BACINI
  12. .
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    morley peetzah
    29 | holyhead harpies coach | conned
    Anche se cercò di non darlo a vedere, l’esitazione, seppur contenuta, della Hilton e il suo «per quanto sia tentata... no» avevano colpito un po’ troppo vicino casa; non negava, Piz, che l’idea di appannare i vetri degli spogliatoi delle Arpie godendosi la compagnia della minore lo allettasse, o che non ci avesse pensato più volte del dovuto. Ma sapeva essere un uomo maturo, quando voleva.
    (E se non lo era mai era perché non volesse, ciao haters.)
    «...magari un pochino. Siamo in anticipo, no?» lo erano? in realtà forse no, non lo sapeva: aveva perso la cognizione del tempo. Penn gli faceva anche quell’effetto. «Al massimo possiamo avvisare del ritardo, dicendogli che abbiamo avuto un contrattempo...» e ricambiò il sorriso dell’altra, felice come un bambino la mattina di Natale.
    La cinse per i fianchi, una presa più decisa rispetto a quella della ragazza, e l’avvicinò di più a sé. Che fosse felice di vederla non si capiva solo dalla sua espressione ebete (ciao Yale, scusa di niente.).
    Non perse altro tempo, e posò le labbra carnose su quelle di lei, in un bacio dapprima contenuto e poi sempre più sentito, più con tanto di lingua a premere contro labbra, e denti, e quella frenesia che con Penn riusciva a stento a trattenere. Era una persona debole, fategliene una colpa.
    In realtà Morley Peetzah era poche cose (o molte, a seconda dei punti di vista e di chi stava parlando); onesto era una di quelle. Lo era perché sapeva di poterselo permettere: era così sicuro di sé, fiero, che qualsiasi cosa non fosse la sincera verità non meritava nemmeno di essere presa in considerazione.
    Certo, alcune (molte.) volte aveva ingigantito storie o ricamato dettagli per abbellire i racconti — ma la base di assoluta verità faceva da fondamenta a ogni sua parola. Era sincero, nel bene e soprattutto nel male. Anche perché, dell’ego o della sensibilità altrui raramente gli interessava: se poteva colpire qualcuno, e guadagnarci qualcosa per lui, non si faceva remore ad assestare il colpo meglio piazzato che riuscisse.
    L’unica persona alla quale mentiva, spesso e volentieri, era se stesso.
    Specialmente, poi, per quello che riguardava Penn Hilton. Era sempre stata lei il suo unico punto debole. Beh, forse non proprio l’unico (l’ego smisurato e il quoziente intellettivo ridotto al minimo erano altri due punti importanti.) ma comunque. Aveva avuto molte avventure, il coach, checché ne dicessero le malelingue, ma Penn era l’unica che fosse contata davvero — l’unica dalla quale fosse tornato ancora, e ancora e ancora.
    L’unica che sperava rimanesse.
    Non si era mai azzardato a dirlo, nemmeno a pensarlo, ma c’erano due paroline – per un totale di cinque lettere – che gli frullavano nella testa, quando pensava a Penn. Era un brutto segno. Morley Peetzah non era fatto per i legami solidi, non era fatto per le cose serie; già l’idea di avere un figlio e di doverlo crescere lo aveva mandato nel pallone e rischiato di provocare un cortocircuito senza precedenti, danni cerebrali che in confronto la botta del bolide sarebbe sembrata a passeggiatina di salute.
    Ma ammettere di voler portare le cose con la Hilton a un altro stadio? Tutto il coraggio e l’audacia che contraddistinguevano la sua ex casata sparivano, in momenti del genere. Perché si conosceva, e sapeva quali fossero i suoi limiti: aveva sempre cercato di superarli e diventare la miglior versione di se stesso possibile, ma a quale prezzo.
    Confessare il suo amore per Penn avrebbe sicuramente alterato i precari equilibri della loro relazione. Non voleva che i danni collaterali, in quel caso, travolgessero anche lei.
    Loro.
    Ma mentre la stringeva a sé, mentre la baciava con trasporto e sentimento, mentre si staccava quel tanto che bastava per riprendere fiato, mentre la osservava negli occhi che tanto amava, mentre poggiava delicatamente le labbra su quelle rosa della ragazza — beh, non poteva trattenere il desiderio di confessarlo.
    Non era assolutamente il momento giusto — non era mai il momento giusto. Avrebbe potuto organizzare una cena, come quella che avevano in programma per quella stessa sera, e poi cospargere petali di rosa sulle lenzuola di seta del letto di un hotel di lusso, o affittare un elicottero che portasse in giro per Londra uno striscione romantico ma no. Ci aveva provato a fare gesti del genere: non erano mai andati bene.
    Due come loro dovevano cogliere l’attimo — era tutto ciò che avevano. Che volevano.
    Forse la soluzione avrebbe potuto essere semplicemente smettere di pensarci; godersi il bacio, punzecchiare un po’ la sua fidanzata e poi gettarsi sotto il getto gelido della doccia per placare i bollenti spiriti. E fine. Non si sarebbe compromesso.
    E invece, era pur sempre di Morley Peetzah che si parlava: se c’era una scelta sbagliata, state pur certi che era quella su cui l’ex Grifondoro si sarebbe gettato.
    Perciò, dopo l’ennesimo bacio, tenendo Penn stretta per la vita, la guardò negli occhi e sussurrò un «ti amo» che sapeva di sollievo, sconfitta, gioia e terrore tutto insieme. «Lo sai, vero?» Non lo aveva mai detto, e per un buon motivo (ma quale.) eppure sperava ingenuamente che dai suoi gesti, nel corso degli anni, fosse trapelato almeno un decimo dell’amore che provava per la Hilton.
    Non si aspettava una risposta — al diamine, non era neppure certo di volerla. A dire la verità, avrebbe voluto ingaggiare un cronocineta e riavvolgere il nastro: cercare di essere più forte di così, di resistere e non fare quel passo falso che, con ogni probabilità, avrebbe rovinato tutto. Non è che avesse paura del rifiuto di Penn – quello era proprio l’ultimo dei suoi dubbi –; ciò che lo spaventava era aver cambiato ancora una volta i contorni di quella storia, che agli occhi di tutti pareva scritta e lineare, mentre per i carbs era sempre stata travagliata e fatta di tentativi ed errori.
    Quello? L’ennesimo tentativo.
    E forse pure l’ennesimo errore.
    fool me once: shame on u
    fool me twice: that's just fucked up
    you know I'm dumb as hell, c'mon
  13. .
    nathaniel henderson
    «Mh.» E fino a lì.
    Posò gli occhi chiari – e stanchi, molto stanchi – sull’ambiente circostante e scoprì, non senza un pizzico di stupore, di non essere nel proprio ufficio. Eppure ricordava perfettamente di aver varcato la soglia dello studio, chiacchierando allegramente con uno studente Tibiavorio in cerca di supporto morale e poi —
    «Mh.» ripetè, ma stavolta assottigliando le palpebre fino a lasciare due schegge azzurre a perlustrare il circondario. Era abbastanza sicuro di trovarsi allo zoo, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Nemmeno un polpastrello, in realtà. «Peccato, volevo sapere come andava a finire.» Lo studente Tibiavorio di poco prima, avete presente? Bene, era andato da Nate per parlare di una faccenda molto importante e lui, dopo averlo ascoltato e aiutato, con l’abilità che anni e anni di shipping gli avevano conferito, era stato bravo a portare la conversazione su una questione ancora più importante. Perché ok, era molto bello spiare le giovani coppie che sbocciavano ad Hogwarts da lontano; ma era ancora meglio ricevere aggiornamenti direttamente dalla fonte. Chiedere ed informarsi dimostravano una certa attenzione nei confronti degli studenti, e Nathaniel Henderson era un professore che si interessava attivamente alla vita dei suoi ragazzi.
    (Nemmeno troppo in maniera ironica — lo faceva davvero. Sapeva cosa comportasse rimanere saldo e fermo nella propria posizione, quanto i colleghi ministeriali lo reputassero poco degno di sedere tra loro alle riunioni, o che ritenessero i fondi che finivano nella gestione degli special uno spreco di denaro pubblico, ma a lui non interessava. Ci credeva in quello che faceva.)
    Schioccò la lingua contro il palato, riflettendo. «Dunque,» non era più al Castello. E di nuovo: e fino a lì. Mise mano all’orologio da taschino che portava sempre con sé, consultandolo per prendere nota dell’ora: ora di pranzo. OK, avevano delle attività programmate per i ragazzi del primo anno, subito dopo pranzo, quindi confidava che Lydia prima o poi avrebbe notato la sua mancanza e allertato qualcuno, perché di quei periodi non si poteva mai sapere: spariva un sacco di gente in maniera improvvisa e insolita, poteva benissimo essere l’ennesimo caso di “persona misteriosamente svanita nel nulla”, non si sentiva di poterlo escludere a priori. «Ok. OK.» Battè le mani fra loro, riscuotendosi dal torpore momentaneo che lo aveva colpito nel rendersi improvvisamente conto di essere dove non avrebbe dovuto: aveva visto e vissuto situazioni ben peggiori, cos’era mai un piccolo blackout con annessa camminatina di salute in quel di Hogsmeade. Chiunque lo conoscesse, sapeva che non era da lui perdersi d’animo: non lo avrebbe fatto nemmeno quella volta. Magari era stato solo vittima di un incidente di percorso di uno studente meno bravo a controllarsi. Succedeva.
    Fece per incamminarsi — quanto meno, nel suo girovagare mistico, era finito in un posto che conosceva; avrebbe potuto dirgli molto, molto, peggio. Carrow’s District era un posto familiare, uno che Nate poteva navigare facilmente, e da cui uscire in un batter d’occhio. Si diresse quindi verso quella che sapeva essere la via che portava all’entrata principale, notando solo dopo parecchi metri che le gabbie delle creature fossero tutte vuote. «OK, strange forte Era così che si diceva, no? Si avvicinò alla prima recinzione trovata, osservando dentro e aspettandosi di trovare qualche animaletto appallottolato sul terriccio, magari addormentato. Invece non c’era nulla. Le gabbie erano pulite, ben tenute, ma vuote.
    Ora che ci faceva caso, l’intero giardino zoologico era deserto.
    Mh, mhhh.
    Forse la questione era un po’ più profonda di quello che aveva anticipato. Quando mai lo zoo era stato così vuoto, a quell’ora?! C’era sempre qualcuno in giro: famiglie a passeggio, scolaresche in visita, persone che avevano una giornata da buttare e decidevano di passarlo lì. Persino i turisti magici andavano a visitarlo! «Cosa potrà mai essere successo.» Parlare da solo, era risaputo, aiutava a risolvere i problemi. O, quanto meno, a districarli un pochino.
    Grattò via un prurito inesistente sulla guancia, l’indice sinistro a grattare sulla barba scura, mentre prendeva nota, adesso con più attenzione, dei dintorni. E fu in quel momento che la vide: una figura minuta, in avvicinamento. Lenta, ma inesorabile.
    Nate alzò la mano, educatamente.
    «Salve, sa dirmi dove-»
    «Un coshi bel ciovanotto» E, senza dargli tempo di finire o aggiungere altro, la vecchina gli posò sulle mani un cesto di frutta. «Mangia, ti fa bene» Che... okay. La frutta faceva bene, in effetti, ma non vedeva come quella potesse essere la priorità della signora, in quel momento. «La ringrazio, è un pensiero davvero carino il suo ma avrei una domanda.» La inchiodò sul posto, occhi chiari negli occhi ancora più chiari — la signora era di un pallore indescrivibile, una nuvola con le sembianze di donna: capelli bianchi, voluminosi e gonfi; veste chiara che svolazzava nel vento, pelle che non vedeva la luce del sole da almeno settant’anni, iridi così chiare da risultare trasparenti. Per nulla affatto ominous. Nate decise di prendere nota di tutti quei dettagli, ma di porre comunque il quesito. «Sa dove sono tutti? C’è magari una festa in qualche area dello zoo?» Poteva escluderlo? No, perciò.
    «Prenda anche questo, ciovanotto»
    Era come parlare con un muro.
    «O-ok. La ringrazio...» cercò di non far trapelare l’incertezza della situazione nelle sue parole, ma era: confuso. Se era un trip dovuto a qualche potere, era solo strano e poco divertente.
    (Per il momento, almeno!!)
    «Che mi dice de-» «il nokia indistruttibile, così puoi lanciarlo sulla gente» EH, se solo ci fosse stata gente su cui lanciarlo.
    (Cosa? Cosa.)
    «Grazie ancora...» Alzò gli occhi verso il cielo, cercando di rimanere calmo e sereno anche di fronte alle difficoltà di comunicazione tra lui e la sciura, ma quando li riabbassò — la vecchina non c’era più. Il cesto di frutta e il cellulare babbano erano ancora nelle sue mani. «Va bene. Va bene, Nate, non farti domande.» Aveva come la sensazione che avrebbe avuto un sacco di tempo per farle, più avanti.
    Riprese a camminare sulla via che portava all’uscita, e si fermò solo in dirittura d’arrivo, la mano che reggeva il Nokia a premere su un fianco ed espressione rassegnata sul volto. «Mi sembra ovvio.» Che folle anche solo a pensare di poter uscire così facilmente da lì, AH! «Un grande classico!» Al posto del grande cancello d’entrata e d’uscita, c’era una solida (e invalicabile) parete di arbusti, cespugli e fitta vegetazione, che saliva alta verso il cielo a perdita d’occhio. Così, a pelle, Nathaniel aveva delle forti vibes che rimandavano ai labirinti ma sperava di sbagliarsi.
    «Mh.» E fino a lì.
    that's me, standin' in the mirror
    I can't help loving myself
    && I don't need nobody else
    (if I was you, I'd wanna be me too)

    31 | teacherdeatheaterclueless



    CIAO ARI BUONA PASQUA. (cosa?cosa.)
    Iniziamo con le cose improtantissime: scusa. Perché... beh, insomma. Scusa, e basta. Ho davvero cercato di fare del mio meglio ma... ma !! ho un limite (mentale.) and it shows.

    1. È in what if/AU perché è chiaramente un Nate non canon, ma poi vedi tu se vuoi continuare a ruolarla qui o se la vuoi spostare... puoi anche non leggerla mai più.
    2. Hai chiesto a Babbo Censimento una role di Nathaniel e.... tadan. Scusa parte mille.
    3. Per l'oggetto (“il nokia indistruttibile così puoi lanciarlo sulla gente”) e il prompt (“una signora random ti ha regalato un cesto di frutta”) ringrazio le ignare sara ed eli jr; il resto, la storia del labirinto-slash-chissadoveseiNate mi è venuta in mente scrivendo quindi non ha senso. ma ci interessa? no. stranger things have happened
    4. Non so cos'altro aggiungere, davvero, come per le fanfiction ci ho provato........ chissà.... scusa Nate I did u dirty.
    5. Auguri di Buon Natale???? fai tu se in ritardo (.) o in anticipo per il prossimo . BACINI
  14. .
    OMG! Ho trovato la figurina di julian bolton!
    link role: the brave at heart
  15. .
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
    morley peetzah
    29 | piz | chudley cannons' coach
    «Mister! Eccomi!»
    Il Mister in questione sollevò di nuovo la cartellina che teneva in mano, agitandola in aria come fosse il sostituto di una mazza rinforzata comprato su Wish: scadente, di pessima qualità e inutile.
    (Per come la vedeva – e viveva – Piz, era proprio così: scambiare la mazza per le scartoffie era stato un vero colpo basso.)
    Lo sguardo azzurro era sempre fisso sul grifondoro, serio e privo della solita luce divertita: non solo era a lavoro, ma doveva far capire al Bolton che lo teneva sotto controllo.
    Doveva rigare dritto.
    Con un qualsiasi altro tirocinante si sarebbe dimostrato ugualmente esigente (il Tulipano ne sapeva qualcosa, e infatti era un po’ che non si faceva vedere — Piz gli aveva dato qualche settimana libera quando era ancora legato contrattualmente alle Arpie, ma da quando era passato ai Cannoni, di Delìth nemmeno l’ombra) ma con quello che rischiava di diventare anche suo cognato...? Come minimo Piz si aspettava più del massimo.
    E poi, era bello metterlo a disagio. Fine.
    Sua sorella non aveva mai mostrato interesse per i ragazzini e ora invece sembrava molto presa da Julian. Mh mmmmh. Okay.
    (Come faceva Morley a saperlo? Beh, aveva i suoi informatori.)
    (Dylan. Era Dylan che ogni tanto gli spacciava novità sulla vita amorosa di Joni. Oh, che volete! Un fratello maggiore che si preoccupava per lei meritava di ricevere aggiornamenti! Fategliene una colpa.)
    «stavo rivedendo le loro giocate e secondo me.. hanno un punto debole»
    «E sarebbe?»
    Piz lo sapeva che i suoi metodi, quell’anno, erano poco ortodossi e poco adatti al gioco che tanto professava di amare. Ma come poteva essere diversamente quando in ballo c’era così tanto? Quando non c’era solo da vincere un campionato, ma umiliare Elwyn Huxley nel farlo!? Morley sapeva di essere fin troppo Elwyn-centrico, certe volte, ma non poteva evitarlo: era la rovina di tutta la sua esistenza, la macchia nera della sua vita, il nemico giurato numero uno. E spesso perdeva la lucidità necessaria per vedere oltre quando il discorso verteva sull’ex Corvonero.
    Era determinato a vederlo fallire — a qualunque costo. Al Bolton non dovevano per forza andare bene i suoi modi, né la società doveva necessariamente essere messa a conoscenza di quello che Piz faceva pur di acquisire informazioni sul rivale; e lo sapeva, razionalmente lo sapeva, che così facendo stava firmando la sua stessa condanna... Ma non riusciva ad evitarlo. Elwyn tirava fuori il peggio di lui.
    Incrociò le braccia al petto, in attesa che il ragazzino lo illuminasse su quanto scoperto.
    All’inizio del tirocinio, era stato chiaro con Julian: avrebbe preteso da lui, settimanalmente, delle relazioni dettagliate sulla squadra che avrebbero affrontato nell’incontro successivo, con particolare attenzione su: punti di forza avversari, punti deboli, i loro schemi di gioco più frequenti e quelli più pericolosi perché imprevedibili, il giocatore di punta, il giocatore più forte e quello più debole, le statistiche e gli infortuni. Gli interessava sapere tutto quello che ruotava attorno al gioco e ai giocatori sul campo; scandali e informazioni personali potevano anche tenerseli. Morley Peetzah giocava pulito.
    Ma non quando si trattava di Elwyn.
    Di lui voleva sapere tutto, anche quante volte al giorno andava in bagno.
    Sperava che Julian avesse qualcosa di interessante da riportare.
    E per il terzo grado personale c’era sempre tempo.
    Sentiva fosse compito suo, in quanto fratello maggiore, protegge Joni e minacciare il Bolton di lunghe ed atroci sofferenze se solo l’avesse fatta soffrire, ma conosceva Pepperoni: se c’era qualcuno destinato a soffrire, tra i due, quello era Julian. Joni sapeva cavarsela benissimo da sola.
    Detto fra noi, a Piz il ragazzone faceva un po’ pena: doveva essere davvero molto masochista per decidere di restare al fianco della carotina.
    O molto innamorato.
    E, reputando che fosse quello il motivo, Morley non se l’era sentita di minacciarlo davvero; voleva solo tenerlo un po’ sul chi va la, con l’ansia di non piacergli abbastanza – come tirocinante e come cognato – per vedere come se la cavasse sotto pressione. Fino a quel momento, era andato molto bene.
    Ma la stagione, e il tirocinio, erano ancora lunghi!
    I'll get over it;
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220 replies since 7/4/2020
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