Posts written by - cracked soul

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    Sarebbe bello potersi estraneare da ciò che siamo. Un'anima che attraversa le pareti del nostro corpo, che osservasse da fuori ciò che l'inconscio ci spinge a fare, guidando una macchina di muscoli che si agitano e merdate che vengono fuori dalle nostre bocche. Se solo fossi intangibile, la non concreta fotocopia irrealizzata di me stesso, mi inorridirei al punto da porre un freno al rivoltante spettacolo di cui sono preda. Bloccherei i miei polsi, tapperei la mia bocca, risucchierei via dal cervello marcio che mi ritrovo tutto ciò che lo rende tanto instabile, corrotto al punto da non distinguere più cosa sia il bene e cosa sia il male. Ne vedo le forme rimescolarsi, assumere le mie sembianze e sovrapporsi poi a quelle di Roxy. Un disegno sbagliato, la contaminazione del mio male nei confronti di qualcosa di troppo bello perché il mio veleno lo infetti. E' sempre stato così, ma ora non me ne rendo conto. Tra i tanti dettagli che sfuggono all'evidenza che l'assuefazione calpesta, forse il più peccaminoso è questo, il modo in cui il mio male annienta ciò che per me si è rivelato candido sin dall'inizio. Nonostante i moniti di mia madre, la possessività con cui ha riposto poca benevolenza nei confronti della Jackson, pur nascondendone l'evidenza ai suoi occhi, meno ai miei, ho perpetuato nell'immaginario di una salvatrice che potesse liberarmi da ogni male. L'ha fatto vendendomi le prime dosi forti della mia vita, ha continuato accogliendo e rispettando la mia disintossicazione, e di nuovo adesso spero forse in un ritorno alle origini, nella comprensione che mi riservava quando ero solo un ragazzetto spaesato a cui bastava zittire un po' il mondo per andare avanti. Quand'è che tutto questo è cambiato? Non trovo risposta al rimodellarsi delle cose. Mi sembra di impastare informi poltiglie che scivolano giù dalle mie mani. Non assumono un senso, non c'è forma che allevi i miei dubbi. Solo lo scalpello infuocato di chi infierisce ancora di più sulla creta asciutta del mio malessere indecifrabile. Non batto ciglio alle parole della Jackson; non me ne faccio niente delle sue preoccupazioni, perché mi è impossibile collegarle alla realtà. Mi rendo conto solo dopo, quando sono le parole giuste - per meglio dire, le parole sbagliate - a raggiungermi, di quanto abbia scavato a fondo in questo rapporto. In noi. Vi ho riposto più speranze di quanto le nostre bocche abbiano avuto il coraggio di pronunciare. Si sono mischiate tante di quelle volte le nostre labbra, i nostri corpi, ma mai una sola volta siamo stati un po' meno codardi, un po' più sinceri. Quella realtà però mi tira uno schiaffo in pieno volto, risvegliandomi dal torpore innaturale che mi ha quietato sino ad ora. Al ringhio di quel "Se io ti mancassi davvero..." non mi serve aspettare il proseguo per accendermi di una furia che mi annienta. "Non devo tenere in considerazione un cazzo, Rox. Io sto bene!" Ferito, urlo quella realtà incurante dell'ambiente che ci circonda, incurante di chi osserva o ci ascolta. Non me ne frega più un cazzo di niente, di nessuno, di me. Perché dovrei frenarmi? Perché addormentarmi sperando di non aprire mai più gli occhi? Ci sono già passato e non mi va. Vorrei solo Roxy fosse in grado di capire. Ed io vorrei comprendere perché lei non abbia la possibilità di farlo. "Non ho fatto niente." Ribadisco, calmo, freddo, raccogliendo il fiato che mi è venuto a mancare a seguito delle mie urla. Il volto si quieta, le vene si ritraggono, il rossore improvviso che l'ha colto svanisce per ridonarmi il pallore che mi spegne. A rimanere vivida è però la mia sofferenza, quel dolore per niente muto che attecchisce ai sibili che torno a rivolgerle. "Vuoi decidere tu cosa sia vero? Vuoi anche decidere cosa debba provare o meno?" Altre le frasi sconnesse da ogni logica che le piombano alle orecchie. Immagino lei ci sia abituata, ma quanto male le farà riceverle proprio da me? Quante crepe dell'anima sto squarciando con le dita febbrili di chi non è capace di prendersi cura di qualcun altro? La verità è che l'egoismo di cui mi veste me lo sento addosso. Lo faccio costantemente, nei confronti suoi, di mia madre, di chiunque. Mi convinco di essere l'effetto collaterale di due persone buone, il cui unico errore è stato concentrare i propri difetti in un unico prodotto. Positivo più positivo, dà il negativo che mi contraddistingue. Merito davvero di essere ascoltato? Merito di essere convinto di dettagli che non voglio vedere, né ascoltare? Per un po' resto in attesa di una sua reazione, qualunque essa sia. Poi, stanco di essere ferito, ma ancor più di ferirla senza capirne il perché, recupero da terra il mio scatolone. Tento malamente di sollevarlo, di dare un ordine vago alle mie cose perché è l'unica cosa che mi resta da provare. Ma quella roba non è la mia vita. Ne fa solo parte, ma ordinarla non significherà mettere a posto i miei casini. Se fosse così semplice, sarei fuori di qui a godermi l'ordine di una passeggiata al parco, non a lasciarmi risucchiare dal caos di una dose mancante, di un'astinenza prepotente. "Smettetela di starmi col fiato sul collo. Sei peggio di mia madre." Forse il più erroneo dei paragoni mai avanzati. Il loro amore nei miei confronti veste panni totalmente diversi. Sono due titani che si scontrano, l'affetto e la possessività che fanno a botte, l'altruismo e l'egoismo che esplodono devastandomi. Ed io non so più da che parte propendere. Non so più neanche come fare a sistemare me stesso. "Se tu non vuoi aiutarmi però, dovrò trovare un altro modo." Un monito? Forse un avvertimento. Oppure un ultimo latente disperato grido d'aiuto che nemmeno io sono in grado di riconoscere.
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    La realtà mi appare ovattata, deforme. Si adatta a contorni variabili, ad un disegno che non trova stabilità né abitudine. I gesti di Roxy, un tempo per me chiari e concisi perché caratterizzati da quella schiettezza che ho sempre apprezzato, non trovano riscontro in alcuna logica per me adesso. E' perché non riesco a guardare la realtà con occhi altrettanto oggettivi. Di conseguenza, comprendere a cosa le sue reazioni siano dovute, a cosa siano rivolte, è un intrigo che mi annoda il cervello. Un cubo di rubik che rende i miei pensieri irrisolvibili. Con chi è arrabbiata? Con me, con la scuola, con qualche cliente? Perché il fuoco che sputa raggiunge il mio volto e poi si espande alle pareti di questi corridoi? Ed i ragazzi che guardano... anche loro diventano vittime del suo astio. La preside, i professori, magari la stessa istituzione scolastica nella sua generalità. Tutte ipotesi che non concepisco. Papabili risposte che non afferro. "Non c'è scritto niente sulla mia fronte. Dovresti vedere le mie pagelle." Intervengo senza sosta, seriamente fermo in questa bolla mancante di realizzazione. E' uno dei principali danni collaterali del tunnel in cui sono incappato. Ti appanna gli occhi, poi pone un velo d'incomprensione sui tuoi sensi e sulla ragione. Ed io che posso farci? Non mi hanno insegnato come liberarmi di questi effetti. Oh... beh, l'hanno fatto, ma non ho avuto abbastanza forza da ricordarmene. "Secondo me stai esagerando." Un cartellino rosso, l'azzardo che normalmente saprei di non dovermi permettere. Non per la presenza di un'assurda permalosità presente nella Jackson, piuttosto invece particolarmente lontana dagli schematici stereotipi femminili basati su concetti tanto frivoli e falsamente accomunanti. E' l'andare contro i suoi tentativi di aiutarmi a suonare estremamente sbagliato. A prescindere dai modi in cui lo dimostra, c'è premura nelle sue parole, nell'agitazione di cui è vittima. In altre condizioni lo capirei nell'immediato. Ora però è solo la superficie quella che si palesa ai miei occhi, una fredda verità sformata che mi appare sotto vesti crudeli, dettate da un'assenza di consapevolezza abitualmente posseduta. Si ritorna un po' bambini, dove la strada per le soluzioni è univoca. Le urla sono rabbia, i pianti tristezza, i sorrisi felicità. Non c'è alternativa, perché tutto segue una linearità che mi è di conforto, che ho ricercato proprio per sfuggire agli intrecci incomprensibili della vita. Una che mi si ritorce però contro, impedendomi di carpire l'affetto, l'amore magari, insito nell'isterismo di facciata che la Jackson sputa contro tutto ciò che le è intorno. Odio questo genere d'inghippo. Lo odio ora più che mai, perché mi presenta una delle persone più importanti della mia vita come una nemica afflitta dall'insopportazione nei miei confronti. "Non ho mandato a puttane niente, stai delirando!" Controbatto ancora alle sue parole, inconsapevole del male che le faccio, di quanto nella mia insistenza sia insita ogni singola accusa che lei mi rivolge. Preoccupazioni mascherate da rimproveri; un tranello in cui casco disperatamente. "Ehi, che fai?" E' comunque con calma ed annebbiamento che mi rivolgo a lei, le sopracciglia inarcate nello stupore quando una sigaretta si accende tra le sue dita. Riesco a collegare l'ambiente in cui ci troviamo, a ricordarne i moniti e divieti, abbastanza da avanzare con soffocata premura nei riguardi del suo impiego, in definitiva di lei. "Non dovresti, potresti passare i guai." Eppure non allungo la mano in direzione della piccola bacchettina di tabacco. Sospiro pesantemente, stanco, poggiando la schiena al muro come se non dormissi da giorni. Le montagne russe su cui viaggio da diverse settimane mi logorano. Alterno euforia ad attimi rassegnati come questo. Spento, rimugino per qualche istante sulla sua domanda, non trovando un capo o una coda che rendano le mie eventuali risposte concrete. "Vado a casa, no?" Non specifico quale. Fondamentalmente non so neanch'io a cosa mi riferisca. A volte mi sembra di avere sin troppe case a cui rivolgermi ed altre è come se non avessi neanche una tegola per riparare la mia testa. Sto ancora al mio appartamento, ma non credo di aver pagato l'affitto di questo mese. Forse neanche quello dello scorso. Oppure l'ho fatto? L'avrà fatto qualcuno per me? Non riesco a ricordare. Non mi importa. "Dai, è un paradiso, pensaci! Niente più compiti, basta lezioni, niente bacchette e strane cazzate da citrulli fuori di testa." Una considerazione accompagnata da un commento necessario, che solitamente tratterrei. Ora però fluisce dalle mie labbra con naturalezza innata. "Così non somiglierò più così tanto a quello stronzo di mio padre." Condividere parti di me con quell'uomo ha sempre disgustato mia madre e me di riflesso. Superficialmente potrei dire di provare sollievo nell'esservi ancora più lontano adesso. Non è solo l'orgoglio che prevedo nella reazione della mamma. C'è dell'altro, fino ad ora controllato da un insano desiderio di migliorare, migliorarmi, che torna a galla investendomi con la rassicurazione di cui ho bisogno. Peccato che Roxy non sembri dello stesso avviso. A lei probabilmente piaceva l'idea di avermi qui intorno. Un po' sciocco da parte sua, ma l'ho sempre apprezzato. Me ne sono cullato, convinto di poter andare avanti grazie a lei. Evidentemente non l'ho mai meritato. "Che importanza ha? Troverò un modo per cavarmela, sono in gran forma!" Commento ancora velato di quell'infantile ottimismo. Un veleno, più che una medicina. Un solo, piccolo, fugace sprazzo di positività prima che la prospettiva di un futuro ancora più lontano da Roxy appaia vivida ai miei occhi, più di quanto non sia riuscito a fare sino ad ora. "Cazzo, però... tu mi mancherai da morire." Confesso senza fronzoli, sollevando lo sguardo lucido ed arrossato sul suo. "Mi manchi già tanto, in realtà." Sincero, non riesco a trattenere quelle moine che sono sempre stato troppo bravo a rivolgerle.
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    Una parte di me si aspettava di fronteggiare uno sguardo così duro. Perché allora fa comunque male? Mi manca la razionalità che ero in grado di mantenere in momenti come questo. Era solo dura doverla affiancare a tutto il resto; mia madre, i soldi, tutto quel pensare compulsivo, le difficoltà da fronteggiare. Quest'adrenalina altalenante mi tiene abbastanza impegnato da rendere quel disastro nullo, qualcosa di cui nemmeno ricordo le fattezze, né tantomeno gli effetti. Forse è così perché di quelle conseguenze mi ci sono cibato, assetato sino all'ultima goccia del silenziatore a quei pensieri. Dritto in vena. Dritto in un corpo incapace di giostrarsi in quel mondo brusco. "C'è sempre un motivo per sorridere, quando sei nei paraggi." Dovrei frenare i miei impulsi, le mie parole. Dovrei rendermi conto del tipo di fendente traditore rappresentino per la Jackson. Continue sferzate al cuore che lo lacerano crudelmente. Un sorriso, una considerazione tanto leggera, può uccidere più delle velenose parole che un litigio normalmente scatenerebbe. Immagino sia ciò che caratterizza la tossicità di cui sono vittima. Un nome, una garanzia. Una condizione, il consequenziale caos che ci frantuma le anime. "Oh yes, baby! Il mio soggiorno in questo posto per damerini col cervello molto più grande di una noce è ormai finito! Grazie, grazie, gli autografi dopo." Rispondo a lei, prestando al contempo attenzione agli sguardi attenti di chi ci è intorno. Meritano risposte alla loro curiosità, no? Roxy non pare del mio stesso avviso. Sentirla sbraitare contro ciascuno studente nei paraggi mi strappa l'ennesimo sorriso, più simile ad una risata sommessa a dire il vero. Cosa ci sia da ridere? Non ne ho la minima idea. Tuttavia in questo stato ogni cosa appare divertente ai miei occhi. E' una protezione, lo scudo al dolore che mi spingerebbe ancora tra le grinfie di una siringa. Non è il momento adatto per farlo, decisamente. "Ciao, belli!" Farfuglio a fatica, lasciandomi trascinare dalla Jackson senza grandi proteste. L'ombra di un "Non toccate la mia roba!" si perde in mugolii confusi, un po' come i miei occhi arrossati che vagano di qua e di là. Nessun obiettivo, né un punto fisso. Persino il volto di Roxy non riesce a mettersi a fuoco nelle iridi di un celeste spento, quasi ingrigito dagli eventi. Dal morale. Dalla mia vita. "Uhm..." Rimugino sinceramente confuso alla domanda della ragazza. Vorrei avere una risposta certa, ma nessuna delle mie sembra esserlo. Lei forse riuscirà a vedere meglio di quanto persino io faccia. Probabilmente è sempre stato così. "Beh, sì! Cioè... non ho fatto del male a nessuno, però la preside non mi vuole più così... credo!" Continuo a rilasciare informazioni sparse, incerte. Solo briciole di una realtà che non comprendo, ma facilmente intuibile ad un occhio esterno. Ancor di più, allo sguardo attento di una Roxy in balia del dramma di merda a cui la sto sottoponendo senza rendermi conto. "Magari è per i miei voti di merda, non so fare un cazzo." Leggero il modo in cui le parole vengono fuori dalle mie labbra. Portano chiaramente significati assai più pesanti. E' questa la figata delle droghe: rendono vivibile l'inferno in cui altrimenti bruceremmo. "E poi è un'esagerazione, non ho fatto nulla." Una bugia, l'ennesima, pronunciata con infantile semplicità. "E se anche fosse, potrei smettere quando voglio." Un'altra, scontata e tipica di chi ci è già dentro in maniera forse irrecuperabile. "E tu come stai? Sembri più incazzata del solito." Innocente, ma di sicuro sconveniente. Come tutto il resto.
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    Come lo misuri il tempo? E' un rompicapo irrisolvibile per me. Ho perso la capacità di apporre oggettività nelle cose che lo richiedono. Lo scorrere delle lancette è solo un sottofondo al mio modo di giostrare i minuti in cui mi sento vivo. A volte quel fottuto ticchettio mi diverte persino, di un diletto isterico strettamente legato alla necessità di prenderla con ironia questa cazzo di vita, altrimenti andrei a fondo. Altre volte mi dà alla testa, mi fa impazzire, alimenta la mia impazienza portandomi al limite della sua positiva controparte. A quel punto sento il bisogno di cedere. Pezzetto per pezzetto, ago dopo ago, mi aggrappo ad una felicità che non c'è. Eppure sembra così reale, quando improvvisamente il mondo si zittisce. E con esso, tutte le mie preoccupazioni si dissolvono. Non è un cazzo di sballo? Immagino lo sia in ogni senso. Dell'ironia però non capisco più la forma. Non distinguo il serio dal buffo, il giusto dallo sbagliato, la vita dalla morte. E' tutto un miscuglio, una poltiglia di elementi che non posso scindere gli uni dagli altri. Il mio compito è quello di immergermici senza lasciarmi soffocare. Di rimanere a galla, perché solo così avrò vinto. Ne sono fermamente convinto, mentre colleziono quelli che a mente lucida giudicherei dei fallimenti ma che mi appaiono in realtà solo come serie di eventi incontrollabili. Ogni cosa elude la volontà umana in questo universo; tanto vale arrendervisi in precedenza. Si vive meglio. Si sopravvive. Ed è questo mantra lagnoso che infesta i miei pensieri, mentre oltrepasso la porta della mia sala comune per l'ultima volta. Reggo in mano uno scatolone, mentre sulle spalle un grosso borsone malconcio penzola avanti e indietro. Pieni della mia roba, scarsa e per nulla ben tenuta. Pieni di ciò che è stata la mia vita qui dentro, in una breve parentesi ormai giunta al termine. Posso immaginare le cause della mia espulsione, ma non me ne capacito. Mi aspettavo più comprensione forse, ma anche in questo caso mi tocca arrendermi alla consapevolezza non sia abbastanza capace di giudizio per mettere bocca su una decisione simile. Poco male, ho sempre fatto schifo con la bacchetta. Questo mi rende meno simile a mio padre? Mi renderà migliore agli occhi di mia madre? Potrei andarglielo a chiedere. Magari sarà proprio casa sua la prima tappa ad aspettarmi dopo aver abbandonato il castello. Prima di raggiungere l'entrata però, ancora barcollante tra i corridoi della torre ovest con l'aspetto di un fantasma desolato, riconosco una figura tra le tante facce imprecise degli studenti che mi osservano. Non potrei non riconoscerla, la troverei tra migliaia di persone. E riconoscerei anche il suo profumo. I suoi capelli. La sua bellezza. Cazzo, quanto mi manca. Io però non manco a lei. Così credo. Sarà il caso di chiederglielo? Forse appena di tastare il terreno. L'incoscienza mi spinge a farlo, a raggiungerla sebbene Roxy, probabilmente ancora incazzata con me e di sicuro presa dai propri impieghi per darmi retta, sia girata da tutt'altra parte. Non riesco ad evitarla. Come un dannato kamikaze, la affianco come se nulla fosse mai successo. "Tuttofare!" Nominativo tipico. Abitudine tipica. Di tipico però noi non abbiamo nulla. Se solo riuscissi a capirlo... "Come mai qui? Non hai tipo degli scopettoni da catalogare o... qualunque cazzo di cosa noiosa?" Le sorrido persino, incapace di captare il pericolo. C'è persino una piccola parte di me ancora ferita dal suo allontanamento, irrazionale ed imprecisa, ma sono troppo distratto per potermene ricordare. Poggio con poca grazia lo scatolone sul pavimento, al punto da lasciar balzare fuori qualche gobbiglia regalatami da White e rovesciare alcune suppellettili già malamente impilate da sé. Non reagisco comunque, neanche ci faccio caso. "Capolinea per me, baby." E' divertente. No, non lo è per niente. Io però non riesco a smettere di sorridere.
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    I colpi che sferriamo l'uno contro l'altra raccontano una realtà opposta a ciò che siamo sempre stati. La mia remissività ha fatto sì di evitare conflitti atti ad esplodere sino a tal punto. Ha affievolito così tante volte le fiamme iraconde della Jackson da rendermi quasi una sorta di calmante d'eccezione. Così funzionano i rapporti, così funziona l'amore. Si pone rimedio a ciò che fa male, si allontanano i dissapori sino a spegnerli, ci si sorregge fino a rimettersi in piedi l'uno di fianco all'altro. Quest'episodio non è amore. Questo profilo non è Asher. E' solo un'ombra, il corpo di un ragazzo ingenuo divorato da un demone troppo grande, consumato nell'anima, nel cervello, persino nel fisico da uno di quei nemici terribilmente subdoli, vestiti della bellezza e del sollievo che solo un amico riesce a donarti. La mia dipendenza è cura e veleno, salute e malattia. E' il picco di un'euforia che aiuta il mio umore, mentre lentamente, in silenzio, massacra i miei ideali come i muscoli, la testa, tutto ciò che mi distruggerà, stavolta sul serio. Per Roxy non può invece ricoprire lo stesso ruolo. Lei, esterna a questa faccenda, vede con chiarezza il male che mi faccio, la pessima influenza che questo casino ha su di me. Avrei voluto accorgermene in tempo, ricordarmene prima di caderci di nuovo. Perché ora che ci sono cascato, non riesco ad immaginare ancora un futuro prossimo senza l'ausilio chimico di cui avverto già la mancanza. "Già, almeno ho aperto gli occhi adesso, no?! Dovresti farlo anche tu!" Ma Roxy ha già una chiara visione di tutto. Sarebbe bello se questo significasse patirne meno il dolore. Se solo la consapevolezza di un guaio cancellasse del tutto gli effetti catastrofici che lo stesso provoca inevitabilmente, ogni cosa sarebbe semplice. Facile. Affrontabile. E se anche lei avesse voglia di cimentarsi ancora in quello slancio di altruismo che strappo via crudelmente dalle sue intenzioni, come posso sperarne non ne esca devastata a sua volta? Magari un giorno sarà persino più rotta di me. Ed invece di raccoglierne i pezzi, sarò nascosto in un vicolo con una siringa che penzola dal mio braccio. "Brava! Buon per te se sei abbastanza forte da non cedere, mh? Perché è questo che intendi, no? Sono un debole per te, non è vero?!" Ingiusto. Traslo sulle sue parole tutto ciò che le pareti di casa mia mi hanno sempre incollato addosso. E' strano, contorto, il modo in cui riesco a rimodellare la realtà in modo che giri dalla mia parte. Che mi renda una vittima incurabile di un sistema che ho scelto io. O meglio, uno che ha scelto me. Non so cosa guidi le mie parole. Non so nemmeno cosa mi trattenga ancora dall'esasperato tentativo di sfogarmi fisicamente su qualcosa, su qualcuno. Di buon senso, non ne posseggo più un briciolo. E di pazienza ancor meno. Ringrazierei mentalmente Steph per essere intervenuta sul fratellino prima che potessi incappare in un errore madornale. E mi chiedo cosa dovrei ringraziare, se al culmine della mia furia, scattato verso Roxy e fermatomi a pochi centimetri dal suo viso, il mio intero corpo si irrigidisce. Non muovo un dito su di lei, né la mano pulsante di un dolore che non percepisco ancora. Con gli occhi lucidi di disfatta, il fiato corto, l'ambiente che torna quieto all'attimo prima che la rabbia prendesse il sopravvento sul mio controllo, non azzardo la minima mossa. E' un silenzio pesante quello che cade, le parole della sorella a giungere in modo ovattato alle mie orecchie. Per un momento, esistiamo solo io e lei. Asher e Roxy. Due cuori infranti, anime incrinate, sguardi dolenti accecati dall'ira. Una richiesta d'aiuto, quella che incendia le mie iridi macchiandone il candido celeste che le ha sempre rese limpide. Non trovano risposta nei bottoni scuri della Jackson. Non trovano la risposta che desiderano. Suggeriscono anzi l'impossibilità di permanere in questo stato, il desiderio azzerato di stare alle sue condizioni. Non voglio farlo. No, non posso farlo. Perché non ce la faccio. Perché non lo sopporto. Perché ho bisogno di stare bene e qui, adesso, mi sento da schifo. "Va all'inferno." Non un augurio, per quanto risuoni come tale. Solo una resa, la mia, prima di lasciarmi alle spalle l'unica opportunità di salvezza che abbia mai avuto. Lascio indietro una famiglia che mi ha accolto. Lascio indietro persone a cui sono andato a genio. Lascio indietro le parti migliori di me, sgretolatesi nel cuore dei Jackson come le speranze riposte nel mio futuro. Tremante e barcollante, mi avvio verso la porta. Senza indugio, la sbatto alle mie spalle. Troverò altrove la mia cura. Lo farò da solo, conscio di non avere più nessuno al mondo che abbia voglia di aiutarmi. L'ho davvero voluto io? Mi dico di no. Eppure la colpa non può ricadere che su di me.
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    "Sessiste?" Non ho mai avuto la fama di cervellone, piuttosto ho sempre fatto parte dello schieramento opposto, di quella branca di persone smistata nel ridondante "non è stupido, ma non si applica" quasi a sottolineare che, paradossalmente, se non ti applichi è perché sei realmente uno stupido. Una visione vorticante per certi versi, da voltastomaco, un po' come tutto ciò che attraversa la mia mente e le mie orecchie in questo istante. Non colgo i segnali che Roxy mi lancia, né l'aiuto che mi offre, perché diverso dal tipo di ausilio che richiedo io. Triste, un po' egoista, ma quanta colpa mi si può realmente dare? A parlare non sono più io. E' la coca, la metanfetamina o qualsiasi cazzo di roba mi sia sparato nelle braccia. Ad un certo punto, non ti chiedi neanche più cosa ti offrano. La prendi e basta, pur di averne ancora. Di stare meglio. Di vivere ancora la sensazione che ogni cosa si sistemerà e che se non lo farà, non sarà comunque una catastrofe. Quest'illusione mi piace da matti, è il cibo della mia anima corrotta. Perché Roxy vuole privarmene? "Che cazzo, Rox..." Un commento sbuffato a capo chino, deluso ancor più che arrabbiato. Per il momento, non riesco a reagire diversamente. Non ho l'energia giusta per incazzarmi, quanto solo la disperazione sufficiente a deprimermi, spingendomi verso una disillusione che mi spaventa. "Perché? Non posso neanche andare a farle visita adesso?" Più tempo passa, meno riesco a capire ciò che mi dice. Forse viaggiamo su due frequenze differenti. Forse sono io ad essermi allontanato dalla sua. Peccato che i miei occhi mi mostrino esattamente l'opposto, obbligandomi ad una visione in cui l'unica vittima del sistema sono io. Perché è lei che mi sta abbandonando. E' lei che non si impegna a capire me. Lei che insiste a punzecchiare ferite che sanguinano di incomprensione e sofferenza. Così non riesco a credere lei mi stia dando una mano. Ed al contempo non mi capacito di come possa osare rifiutarmi, respingermi, con gesti e parole che fanno più male della mano arrossata. E' un fastidio che non sento, al cospetto del dolore che i suoi colpi mi infliggono. Non la spinta che mi fa piombare sulla sedia. Ma le parole, le sue, che oltrepassano un limite capace d'innescare la bestia finora sopita. "Le stronzate di mia madre?" E' puro caos. Divento cieco alla visione razionale delle cose. Sordo alla necessità di calmarmi. Non esiste più niente, a stento esiste la Jackson davanti ai miei occhi. E di certo, non è la ragazza che conosco da anni, non quella per cui ho perso la testa. Non quella che ho creduto di amare. E' solo un profilo vuoto, un contorno privo di colori o sentimenti. Un capro espiatorio, che giustifichi il capriccio di un bambino che non ha ottenuto il giocattolo desiderato. Di un uomo disperato frenato nel raggiungimento del proprio vile obbiettivo. "Perché, ti credi meglio di lei? Non lo sei Roxy, sei solo una sporca egoista." Mi tiro in piedi, andandole in contro, il palmo sbattuto con forza sulla superficie del tavolo come un piede premuto sull'acceleratore. Le mie parole sono la scia di un fumo di crudeltà che inizia a rendere l'aria nella stanza pesante. "Una spacciatrice di merda che rovina le vite delle persone e poi se ne lava le mani, fintanto che può dare da mangiare a quei poveracci dei suoi genitori!" Urla tanto crudeli, lontane da ciò che il mio cuore cova, attirano inevitabilmente i ragazzini poc'anzi allontanatisi dalla stanza. Percepiscono forse la gravità della situazione, fermi sull'uscio pronti ad intervenire. Non c'è violenza però nei gesti che i pugni chiusi intrappolano. Niente che possa raggiungerla fisicamente. La voce, però... quella è affilata come la lama di un coltello pronto a fare a brandelli il suo cuore. "E ora mi tratti così? Pensi di potermi disintossicare?" Le mie labbra sorridono, ma non c'è nulla di divertente nella mia espressione. Tra le gocce di sudore, si disegnano tratti marcati di un'estranea disperazione. E' sofferenza, sotto le spoglie di una rabbia che non ha niente di nobile, né di lucido. "Io sto bene. Sei tu ad essere un disastro, Jackson!" E nella frustrazione che mi gratta la gola, le luci della stanza sembrano sfarfallare. Una magia che non controllo, che si attacca all'esasperazione insita nel mio corpo, sul viso rosso di rabbia, nella voce pazza e graffiante di un animale senza freni. "Sei tu che mi hai fatto questo! Sei stata tu! E ora fingi di volermi aiutare a modo tuo e mi volti le spalle?!" E' Jay ad intervenire, probabilmente in modo sconsiderato. In un attimo le sue braccia circondano il mio busto, forse con l'intento di allontanarmi preventivamente dalla sorella. Non le farei mai del male. La scena a cui però sta assistendo dev'essere raccapricciante. Non reagisco, sebbene gli intimi più volte di lasciarmi andare, dimenandomi inutilmente e cercando di staccare le sue dita dal mio addome senza successo. Non voglio fare del male neanche a lui. Non voglio farne a nessuno. Forse solo a me stesso, anche se non me ne rendo conto. "Vaffanculo!" Un ultimo urlo esasperato, finalmente libero dal ragazzino tirato via da Steph, con gli occhi lucidi di rabbia puntati in quelli sconosciuti della ragazza che mi è dinanzi.
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    Le parole dei Jackson arrivano in modo distorto alle mie orecchie, troppo perché possa realmente comprenderle. Di norma l'arguzia non è una mia dote, ma a maggior ragione nelle condizioni in cui riverso capire cosa vogliano comunicarmi rasenta l'impossibile. E tutto ciò che riesco a fare è chiedermi perché si comportino così. Pochi i dubbi che appongo a me stesso, contrariamente alle migliaia di interrogativi che non posso fare a meno di riservare a loro. Vorrei vedere il bene nelle loro parole, ma è tutto troppo marcio e scomposto perché mi renda conto di cosa mi succeda intorno. "Eh? Che cazzo dici, non ho nessun'altra ragazza!" Forse c'era dell'ironia nelle parole di Roxy o un contorto concetto che mi è estraneo. Tutto vortica rovinosamente, lo fanno le immagini che vedo, i corpi dei fratelli Jackson, ma anche tutte le sensazioni ed i pensieri di cui sono preda. Il tremore vistoso non fa che aumentare, regalandomi un aspetto sempre più pietoso. L'acidità di Roxy amplifica il malessere che provo, in una mente stanca, spossata, tanto quanto lo è il mio stesso corpo. "Che acida, Rox, hai le tue cose?" Un commento vile che solitamente non verrebbe fuori dalla mia bocca. E' chiaro non abbia più il controllo nemmeno delle mie fottute parole ed ora come ora non riesco a farmene un cruccio, troppo preso dal fastidio che l'assenza di adrenalina nel mio corpo sta provocando. Cazzo, è sempre più insopportabile, cosa aspettano a darmi una fottuta mano? "Bla bla bla, io sono ancora qui ragazzi...!" Lo dico ridendo. Neanche so che cazzo ci sia da ridere. Eppure sembra divertente, uno strano scherzo del destino che non può fare a meno di suscitarmi questa dannata sensazione di divertimento. Oscilla tra malessere e benessere. Ed in definitiva, passo dal sorridere al rabbuiarmi, labbra su in una gioia ingiustificata, poi curvate in giù e strette, trattenendo la nausea che scorre per il mio esofago. I brividi mi inducono a stringermi ancora di più nella coperta. Mi sentirei ridicolo di norma, ma non posso farne a meno adesso. Non c'è nulla di sbagliato in tutto questo, no? No, non c'è. Quando tutto questo trambusto di gente dalla pelle ambrata si dilegua, lasciando solo Roxy davanti a me, mi sembra per un attimo di poter respirare. Un'illusione del cazzo, considerato sia quella probabilmente più arrabbiata con me. Vorrei capirne il motivo, ma è chiaro non sia capace di darmi spiegazione per nulla in questo momento. Lei, invece, si comporta come se avesse già capito tutto. Ed è buffo a pensarci, perché nemmeno io riesco a ricordare perché sia venuto fino a qui... o forse qualcosa la ricordo. "Che cosa? Che mi dovrei scordare?" Il chiarimento giunge poco dopo, mentre la ragazza, indaffarata con la moka, mi rivolge allusioni che non posso non comprendere. Non stavolta. Resterei sbigottito dalla sua furbizia, ma in fondo mi era già abbastanza chiara, al punto da non necessitare un maggior impegno da parte mia. Di Roxy mi è sempre piaciuta l'astuzia, la mente, ogni dettaglio che vada oltre il suo bellissimo corpo. Adesso però mi sembra di sentirmi attratto solo dal secondo. Mi conviene sia così, perché affrontare il resto finirà per buttarle addosso un bel sacco di merda immeritata. "Beh perché sei... sei tu la regina del quartiere, no?" Troppo semplice, troppo banale, incline all'ingenuità che mi fa da padrona ora più che mai. Dev'essere stata lei ad avvertire tutti gli spacciatori in zona di non allungarmi alcuna roba. Ne sarei incazzato da morire, se fossi capace di realizzarlo. Vago invece ancora in questo cumulo confusionario, incapace di muovermi senza rischiare d'inciampare. "Coi risparmi del lavoro, no?" Quali? Quelli li ho già sparati via tutti e dubito di essere riuscito a tenermelo quel lavoro. Essere stato sbattuto fuori all'ennesima giornata presentatomi in condizioni pessime ha compromesso ogni possibilità di recuperarlo. Ma fanculo, non ne ho bisogno. Ho altre vie per recuperare qualcosa. "E poi mia madre tiene sempre qualche spicciolo nei cassetti, basta sapere cercare." Mia madre. Dubito Roxy sappia del nostro riavvicinamento. Non gliene ho parlato. Non conosce le cause che mi hanno spinto a... beh, a questa merda. Ed io ho smesso da tempo di fregare il denaro che qualche tossicomane le ha rilasciato dentro i cassetti dopo lunghe scopate da voltastomaco. Avevo smesso da tempo. La necessità mi ha spinto di nuovo al rischio di rimanerci secco sotto i pugni di qualche stronzo che si porta a letto. L'incoscienza mi guida imperterrita in quelle azioni. Io non ho modo di curarmene. "Però se tu mi dessi una mano, magari sarebbe... più facile." Esordisco, per niente conscio di quanto diretta la mia proposta possa risultare. Mi metto persino in piedi, raggiungendola e cingendo con fare esagerato i suoi fianchi con le mani, il corpo pressato contro il suo, il naso fastidiosamente insinuatosi sul suo collo mentre la bocca sussurra desideri che non hanno niente a che vedere con ciò che ci ha sempre legati. "Non vuoi aiutarmi a stare meglio?" Le chiedo debolmente, sospingendola troppo contro i fornelli alle sue spalle. Anche la mia mano si poggia pericolosamente vicino al gas acceso, ma dal bruciore che avverto sulle dita non me ne sento minimamente toccato.
  8. .
    Una spiccata ingenuità riveste le mie aspettative. C'è disperazione nella mia sete, altrettanto impressa in occhi che Roxy è capace di leggere. Vorrei essere abbastanza forte - o lucido - da leggere nei suoi il dispiacere che le provoco. Quell'astio che sale a galla non è che la copertura rigida di una profonda preoccupazione, di un dolore che lacera il suo animo, investendolo di sensi di colpa che io, ancora una volta, non riesco a vedere, né a credere possano esistere. E' quindi scetticismo quello che emerge ogni volta che la sua durezza mi trapana i timpani, con una pesantezza che mi destabilizza più di quanto questi dolori e fastidi del cazzo non facciano già. Jay, al contrario, sembra un piccolo puntino luminoso che rischiara il percorso dinanzi a me. Il suo diniego, sebbene mi faccia storcere il naso, risuona con note gentili nell'ambiente. Non riesco ad adirarmene, sebbene sulla mia espressione sia un broncio offeso quello che si pianta stabilmente. "Ma con chi credi di parlare? Ne reggo anche sei di fila, non ti ricordi amico?" Perché dovrebbe ricordarsene? Perché dovrebbe essere partecipe di menzogne come le mie? E' solo un ragazzino, i nostri pomeriggi si compongono di partite a basket sul retro di casa sua e qualche pacchetto di caramelle da lanciare tra i ricci della sorella maggiore più che da condividere. Sono solo immagini distorte quelle che si fanno largo nella mia testa. Ogni scenario che scorre ha tratti indefiniti, molli e crepati, turbati dalle sensazioni che mi mettono al tappeto. Barcollante, lascio che sia Roxy a guidarmi sino alla cucina. Anche la figura di Steph, col suo arrivo improvviso, trema sotto i miei occhi. Si veste di una premura insieme al fratello maggiore cui non sono capace di mostrare riconoscenza. Resto anzi avvolto da una coperta che non calma del tutto i miei brividi. Il sudore imperla la mia fronte, bagna i miei vestiti, ed i miei occhi lucidi ed arrossati seguono i loro movimenti con la distrazione di chi febbrilmente indebolito. La testa mi gira, la stanza ruota attorno a me anche mentre siedo dove Roxy mi ha guidato, e le sue parole mi arrivano distanti, ma paradossalmente bucano il mio cranico con la forza di migliaia di decibel. Sento i pensieri fare crack mentre la bocca impastata articola parole che un senso non ce l'hanno. "Volevo vederti. Sei ancora la mia ragazza, no?" Lo è? Lo è stata? C'è un confine sottilissimo tra ciò che siamo stati e l'ammettere di comportarci, di tenerci come una coppia vera. L'abbiamo varcato... ma adesso lo sento inspessirsi, separarci. Ma ne sono io l'artefice? O il destino? Sperare nella seconda ipotesi è più semplice. Codardo, ma automatico. "Mi manca abbracciarti... baciarti..." Oltre la coperta che mi ricopre sino ai polsi, le mani ricercano la sua figura. Risalgono sino ai suoi fianchi, tremanti ed incapaci di artigliare la sua pelle sotto la maglietta che la riveste. Magari mi aiuterà lei. E' l'unica che possa farlo. Ed in un modo o nell'altro, continuo a credere che essere venuto fino a qui sia stata la scelta migliore mai presa. "Sto bene, ma... puoi aiutarmi a stare... meglio." Il come non è ancora rivelato. Lo tengo fermo dentro me, incastrato sotto la lingua, mentre il viso affonda nel suo addome, il naso a tirare su il suo profumo. Può essere lei la morfina di cui ho bisogno. Un piccolo tampone al mio malessere, prima di cercare quel tipo di droga che immagino di poter trovare tra le mura di questa casa.
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    Ci siamo lasciati andare a vicenda. Abbiamo mollato la presa l'uno sull'altra, forse per senso di colpa, forse per rabbia, magari per vergogna. Ho dubitato spesso fosse stato un sentimento comune, una meta similare da raggiungere voltandosi le spalle, prendendo una strada alternativa che ci guidasse agli stessi disastrosi risultati. La lontananza, la mancanza, fintamente riempita da altro, da illusioni che non hanno mai servito il nostro scopo. Sono convinzioni che continuo a ripetermi nella testa, proiettando la mente sull'assoluta certezza Roxy senta la mia mancanza, che abbia volto i propri pensieri a me durante le interminabili settimane di separazione, i mesi passati ad evitarci perché troppo vulnerabili per affrontare ciò che si è stagliato tra noi come un incubo infinito. E' così che lo vede lei, mentre io mi ci lascio annebbiare ed avvolgere come fosse l'unica scelta che mi sia rimasta. Pasticca dopo pasticca, una siringa alla volta, mi convinco di reggere con sempre più forza tra le mani il controllo di cui ho bisogno. Stupido, non ho la capacità di rendermi conto di star compiendo esattamente l'opposto. Tornare a farsi è stringere un patto col diavolo. Ci ho apposto la mia firma, perché mi sembrava fosse l'unico a poter sopportare la mia presenza in questa vita. E mi è sembrato funzionare, fino a quando le risorse non si sono esaurite e con loro la mia pazienza, la resistenza, la forza necessaria per non crollare. Convinto ormai di non poter fare a meno di quei tossici sotterfugi, vederli mancare dalle mie mani è una doccia gelata in pieno inverno. Una conseguenza inevitabile, la disperazione che ne deriva, mentre sgattaiolato fuori da casa di mia madre, vasetti scoperchiati e cassetti strappati via dai mobili, porto con me il paradossale peso di quel vuoto. Quello effettivo, di plateale mancanza di soldi e di materiale per sopperire alle mie ansie, e quello che scava voragini di agitazione all'altezza del mio petto. Mi chiedo se sia inconscio o meno avanzare verso una direzione conosciuta. Calpesto strade che hanno il profumo della familiarità, circondato da assordanti suoni che, benché mi innervosiscano, mi rassicurano. Quando gli occhi rossi e lucidi si puntano sulla porta di casa Jackson, mi sembra di poter ricominciare a respirare, i polmoni pieni d'aria pulita, aria di libertà ed ingenuo sollievo. Marcio lasciando orme di puro egoismo sul vialetto dell'abitazione. I palmi che si pressano spasmodicamente contro la porta macchiano la superficie di avarizia. La consapevolezza di aver cercato lei per un tornaconto troppo lontano da ciò che abbiamo condiviso negli ultimi anni, privo ormai della fierezza e della fiducia provata nei miei confronti, rende il mio tentativo meschino. Eppure i miei occhi piangono disperazione. Il corpo sudato supplica un aiuto che solo lei può darmi. In un modo o nell'altro, ho bisogno di Roxy. Vorrei solo rendermi conto di quanto sconveniente sia trascinarla a fondo con me in questo cazzo di casino. "Ehi, no! No, no, no, sto... sto bene! Una favola, però cazzo ecco..." Balbetto, come fossi incapace di pronunciare una frase di senso compiuto, di farlo con lei, affrontando lo sguardo duro e le parole altrettanto inclementi che mi rivolge. Il polpastrello dell'indice picchietta nervosamente sullo stipite dell'uscio, la testa si poggia sul braccio anch'esso appoggiatovi quasi incapace di reggersi su da sola. Il fiato pesante tradisce il mio malessere, ma ci pensa già ogni altro dettaglio del mio corpo a definire quel quadro pietoso. Ogni centimetro della mia pelle suda afflizione. Persino il sorriso che tento disperatamente di rivolgerle appare uno spettro assalito dallo sconforto provato. "Niente. Tu sei una favola, come sempre. Che cazzo di bomba sexy, ah!" Blatero temporeggiando, ma non c'è vergogna nel mio volto. Sono anzi gli elementi che più dovrebbero sorgervi a mancare: senso di colpa, imbarazzo, dispiacere. Del ragazzo ripulito che ha rincontrato due anni fa, non pare esserci più traccia. "Ehi, sono Jay e Steph che fanno casino? Posso salutarli?" Ingenuo, ancora, cerco di affacciarmi con lo sguardo oltre la sua spalla. Dissimulo un controllo che non ho, così come lei non perde tempo di portare all'attenzione. "Posso entrare? Ci beviamo una birra come... come abbiamo sempre fatto. Birra e sigaretta! Dai." Di genuino nella mia proposta però non c'è assolutamente nulla.
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    "Mi fai venire un cazzo di mal di testa." E' come se non riuscissi ad ascoltarla. La sento, ma non recepisco tutto ciò che le sue parole racchiudono. La preoccupazione, l'affetto, una paura ben radicata tra i meandri di sensi di colpa che non sfiorano la mia mente. E' questo che urla, sono io a costringerla a farlo. Non perde le speranze, ma io non faccio che bloccare i suoi tentativi, le sue suppliche. Mi chiedo se sia la mia testa o se sia la merda che sta circolando nel mio corpo. Probabilmente entrambe: sono io ad essere una merda vivente e non ho mai lottato a sufficienza per venirne fuori. Ho il fallimento piantato nel DNA, quello che hanno messo su quegli stronzi di mio padre e mia madre. "Già, come volevasi dimostrare." Ribadisco, perso nella mia incoscienza, alle parole della Jackson. Non si fida. Non posso darle torto, ma fa comunque male. Ho provato ad essere diverso, il ragazzetto ripulito che gioca a fare gli incantesimi con la bacchetta in un casello di gente per bene. Ho tentato disperatamente di omologarmi a quella normalità, ad un ambiente cui mia madre fosse estranea, sfruttandone lo scetticismo per ritagliarmi un pezzo di vita che non la coinvolgesse, che desse un taglio anche momentaneo al cordone ombelicale che ci ha tenuti in una malata ed ossessa simbiosi. Ho anelato la libertà, seppur schiacciato dal senso di colpa per le accuse ricevute, cariche di disprezzo ed una violenza che silenziosamente spaccava in frammenti di dolore ogni parte miracolosamente intatta della mia anima. Roxy ne teneva fermi i pezzi coi cerotti del suo affetto, di tutte quelle premure che si consumavano fuori dalle coperte. Credevo di non averlo mai sottovalutato, perché per me le sue cure non erano mai scontate. Erano anzi l'antidoto ai miei problemi, la droga benigna di cui riempire ogni centimetro della mia devastazione. Adesso sembro svalutarlo. Ritornato all'eccesso opposto, la mia ossessività scatena il caos. Ancora una volta mi uccide, sottolineando poco a poco l'incapacità di cavarmela da solo. L'ultimo monito di lei mi annienta. Confuso, gli occhi increduli, perplessi, colmi di ansia sotto le sopracciglia aggrottate nello sconforto, mi chiedo davvero quanto sia seria in questo momento. "E questo che significa?" E' uno sguardo ferito il mio, che si accentua nel momento in cui mi rendo conto della fermezza con cui decide di mantenere la parola rivoltami. Un pugno in pieno stomaco. Un fiume a ciel sereno. E la convinzione stupida sia bastato "solo un errore" ad indurla a desistere del tutto. In parte - e mi fa male arrivare a questa conclusione - mi sembra di odiarla. "Mi stai mollando? Davvero?" Non riesco nemmeno a sorridere, di quell'amarezza che curva falsamente verso l'alto gli angoli della bocca. Mi fa male. E' come avere una lama conficcata in pieno petto ed è tremendamente fastidioso. Ero sulla punta del mondo, mi sentivo così bene dopo anni ad aver sperimentato esattamente l'opposto: angosce, ansie, paure, timori. Il vuoto. Lei mi ha trascinato giù. Ha rovinato il mio momento di felicità. Perché? Non vuole che io lo sia? Non sopporta che possa esserlo anche senza di lei? La mia disperazione non riesce ad elaborare concetti diversi. Concetti giusti che adesso non contemplo, affidandomi piuttosto all'universo distorto che sta fiorendo attorno a me. "Vaffanculo, Jackson, sei un'egoista." Mi sembra di crederci davvero, mentre a capo scosso e labbra imbronciate, me ne torno indietro lasciando quella parentesi di distruzione lì, ferma, frammentata tra i cocci delle lenti scure che hanno alimentato le mie bugie e dei nostri cuori frantumati dall'incomprensione.
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    Ci sono limiti in ogni cosa e la morale suggerisce di non oltrepassarli. Non resta che un monito debole, un consiglio che difficilmente viene seguito. Come tale, anzi, il desiderio di superare ciò che ci è imposto di non soggiogare si fa forte, come una droga che non si può fare a meno di assumere ancora ed ancora. Ci pensi sempre, con costanza, al punto tale da renderti conto di non poter più riporre la concentrazione in altro dettaglio o interesse. Rimbomba incessantemente nella testa la volontà di sospingersi oltre quel che non dovremmo fare. E lo facciamo, sperando di sentirci meglio, ma non ci arriviamo mai davvero a quella soddisfazione. Corriamo all'infinito, in un circolo vizioso dove pretendiamo senza mai agguantare nulla di concreto. Ed è ciò che mi sta succedendo, ora che ho ricominciato a correre ardentemente per soddisfare grida di necessità che non comunico altrimenti. Qualcosa che, a detta della mia mente contorta e dispersa in questo limbo di disperazione, nessuno può darmi. Neanche Roxy. Immagino sia questo il dettaglio che rende in assoluto più grave le mie condizioni. E' sempre stata la mia ancora, il mio punto di riferimento, una salvezza nel pieno mare in tempesta della mia caotica realtà. Adesso, dinanzi alla sua rabbia, alla delusione, alla violenza con cui si scaglia sugli occhiali come forse vorrebbe lanciarsi sul nostro rapporto montato su nuove bugie e false promesse, non riesco a vederla come tale. Non è un nemico. Non ancora. Ma non ritrovo in quei suoi occhi scuri ed amareggiati la complicità che fino ad ora mi ha aiutato a respirare. "Sei un po' melodrammatica." Falso. Qualcosa che a mente lucida non avrebbe mai neanche lontanamente sfiorato la mia mente. Un giudizio che mal si addice alla figura forte ed assennata della Jackson. Sono solo i miei occhi a rimanere offuscati dalla confusione che la mia mente gli suggerisce. Un effetto collaterale dell'incapacità di difendermi, dinanzi a quelle che inconsciamente riconosco essere delle realtà inconfutabili. Mi dico di avere il controllo, eppure chiunque da fuori vedrebbe come sia già cascato nel pieno della merda. Roxy, certamente, se n'è già resa conto. "E allora? Anche tu sai più cose di chiunque altro su di me. Questo non significa che le conosca proprio tutte." E' un gioco pericoloso, un azzardo dietro l'altro che si susseguono per creare un putiferio senza precedenti. Non ho mai rivolto parole simili a Roxy e mai mi sarei anche solo sognato di farlo. Forse perché in un qualche contorto modo ho sempre pensato lei mi appoggiasse e mi fosse vicina. Era così. L'inganno è che lo sia anche adesso, ma io sia già troppo fottuto per potermene rendere conto. Questo è forse il lato peggiore delle dipendenze: chi prova ad aiutarti nel modo giusto assume le sembianze di un dannato traditore. "Perché non ammetti piuttosto che non ti fidi di me, eh?" Ribatto, senza controllo, all'ennesima delle sue sfuriate. Mi sento quasi offeso dalle sue parole. Dannazione, perché non capisce? "Se ti dico che ho tutto sotto controllo, è perché è così. Possiamo smetterla adesso con queste cazzate o vuoi continuare a mettermi sotto processo?" E nel mio assurdo immaginario, lei sembra procedere imperterrita con domande inutili e per nulla gradevoli. La verità è che sono terribilmente scomode. Rispondere significherebbe mettere a nudo la mia vulnerabilità, guadagnarmi - meritevolmente - l'appellativo di "stupido". Sembrerei debole, più di quanto non mi senta già. E sebbene la ragazza sia stata più volte partecipe del mio dolore, in questo preciso istante mi sembra una prospettiva davvero insopportabile. Troppo. Credo di non riuscire a farcela. Non riesco a reggere il peso di tutta questa pressione. Mi dico di essere forte, un vero eroe e tenere duro per non tradire me stesso. Tradendo lei, però, non risulto nient'altro che un cazzo di codardo. "Non ha importanza, non vedo cosa dovrei dirti." Tento senza grande convinzione a divincolarmi dalla sua presa. Le sue dita incastrate alle mie sembrano soffocarmi quasi quanto le sue parole e le accuse che restano intrappolate in quei due cerchietti limpidi e scuri affacciati oltre le ciglia. "Anzi, non ti avrei detto proprio nulla e questo è il motivo. Stai facendo la pazza senza un perché." Stavolta più deciso, col volto appena più crucciato, quasi malamente combattivo e non arrendevole come fino a qualche istante fa, tiro via le mani dalle sue. A capo scosso, il corpo indietreggiante di qualche passo, recupero gli occhiali da terra, incapace di trovare una soluzione per rimetterli a posto. Anche avessi imparato qualcosa al castello, non sarei comunque abbastanza lucido adesso da porre rimedio a quel piccolo danno. In definitiva, non lo sono per nessuna cosa. "Senti, forse per oggi è meglio lasciare stare. Ci vediamo domani o quando ti sarà passata quest'insulsa rabbia, ok?" Più che un invito, risuona quasi come un'imposizione. O come un desiderio. Non riesco ad esserne certo, ma poco importa. Di sicuro in questo istante non mi sento pronto a sopportare ancora questo tipo di confronto con Roxy. Non perché serbi alcun rancore per lei e per la sua reazione spropositata, ma perché si fa forte la voglia di vestirla di nuovo dei panni di un'amica e sostenitrice che ora non mi sembra di trovare in lei.
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    Alloggiare al castello si rende ogni giorno più complicato. E' asfissiante stare così lontano dai vizi orribili in cui sono ricaduto ed i palliativi che riesco a concedermi - e non con pochi rischi - nelle ore libere che mi ritaglio a stento, non mi sono d'aiuto come speravo. L'erba è l'unico escamotage che gira per i corridoi e lo fa già in modo tanto sospetto e criminoso da rendersi complicata da reperire. Sì, persino una semplice bustina appare come il più atroce dei reati, qualcosa per cui meritare forse l'espulsione? Non ne sono certo, ma è abbastanza grave. E questo non fa che alimentare il mio nervosismo, amplificando una condizione già di per sé estremamente complicata. Vago sul filo del rasoio, potrei esplodere da un momento all'altro. Mi sento pronto a farlo, costantemente, e non sono ancora riuscito a capire se appoggiarmi alla presenza di altri studenti al castello o se sia meglio isolarmi. Non ho modo di fare il punto della situazione. Mi ritrovo avvolto da un vorticoso guazzabuglio di incertezze, tic molesti a coronare i miei gesti, le mani tremanti ogni volta che l'astinenza si fa sentire. Non c'è tabacco che tenga. Ed anche le piccole cartine euforiche che riesco a recuperare, non sono abbastanza. Restano però l'unica scappatoia che ho per non lasciarmi schiacciare dal peso dei miei drammi, di tutti i cazzo di casini che mi opprimono quotidianamente. Mia madre, il pensiero preponderante nella mia mente, non si affievolisce mai. Le sue richieste continuano a mandarmi allo sbaraglio. Le lamentele per il mio comportamento peggiorano la situazione. Così oscillo senza mai fermarmi in questo misto di paura, oppressione, senso di fallimento ed angoscia. Tutto il miscuglio delle mie più tragiche emozioni che spezzano del tutto il mio equilibrio già precario. Ciondolo di conseguenza tra le mura del castello elemosinando qualunque cosa mi sia raggiungibile, perché non posso fare a meno di abusare anche solo di quelle apparentemente insignificanti scappatoie rinchiuse tra le pareti sottili e velate di una cartina di sigaretta. Non è difficile trovare, al contrario, posti adatti a consumarle. Ogni giorno più della metà della popolazione studentesca si aggira di qua e di là con aliti che lasciano poco spazio all'immaginazione. I loro vestiti pregni di quella tipica puzza esuberante parlano più di quanto le loro bocche non farebbero. Ed in mezzo a loro io stesso mi aggrego, sebbene vittima di una disperazione che non ha niente a che vedere con ciò che per tutti gli altri non è che un mero passatempo. Guardingo e quatto quatto, raggiungo le serre di erbologia ad appena un'ora prima che il coprifuoco scatti. La responsabile ha sempre chiuso un occhio, per quanto possibile, e la zona si rivela sicura entro certe tempistiche. Suppongo un po' tutti lo sappiano. E' per questo che mi trovo qui ed, al contempo, non mi stupisco nello scorgere la figura di una ragazza che potrebbe aver avuto la mia stessa idea. Veste la divisa di Durmstrang e la riconosco per merito dell'ultimo numero di quel giornaletto del cazzo dai toni del rosa. "Anche tu qui per fumare?" Le chiedo celermente, tentennando mentre cerco di comprendere le sue intenzioni. Chi mi garantisce che anche lei sia qui a consumare un po' di erballegra e non aspetti invece il momento per denunciarmi alla preside? Non sono certo di potermi fidare. "Ci sono pochi posti quasi del tutto sicuri per farlo e questo è uno di quelli." Affermo con una certa sicurezza, incrociando le braccia al petto mentre studio lentamente la sua figura. "Anche alla tua scuola è così?"
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    La reazione della Jackson non mi stupisce per niente, ma non per questo mi fa meno male. O, per meglio dire, meno paura. L'esasperazione che si staglia nei suoi occhi assume le forme di giudizi che mi spaventano, un po' come l'idea di aver davvero mandato tutto all'aria perché... beh, perché sono un fallito che non sa fare altro. Mia madre magari non ha poi tutti i torti. Però non è a lei che penso, in questo preciso istante, mentre soccombo all'ira di Roxy. Passa in secondo piano rispetto alla necessità di sistemare le cose prima che peggiorino, nonostante già ora mi sembri troppo tardi. Solo perché lei stessa reagisce come se non ci fosse più niente da prendere. Inutile dire che, sì, mi sembri decisamente eccessivo. "Stai esagerando, perché non ti calmi e abbassi la voce?" Ribadisco, tentando di sfiorarla quasi inutilmente. Lei continua a mantenersi a distanza, magari le dà persino fastidio che io la tocchi in questo preciso istante. E questo sì che fa male. Tanto quanto ricevere quell'epiteto che, per quanto veritiero, pronunciato dalla sua bocca ha il potere di avvilirmi, di colpirmi come fosse il più affilato dei coltelli al mondo: tossico. Un nome che, a quanto pare, farà sempre parte di me, attecchito alla mia pelle come una patina irremovibile, sino a diventarne un tutt'uno. Asher Puckett, il tossico. Il fallito. Quello che il padre ha abbandonato. Quello con la madre troia, psicolabile e col cervello altrettanto fottuto. Non sembra esserci spazio per altro nella mia vita e adesso anche l'unica persona che riusciva a vedermi diversamente, per il ragazzo che speravo d'essere, ha dinanzi a sé questa figura patetica e miserabile. Ed è colpa mia. "Chiamarti per cosa? Per caricarti di nuove preoccupazioni? Per continuare a gettarti addosso i problemi della mia famiglia di merda o della mia situazione del cazzo mentre ogni giorno combatti per sistemare i tuoi?" Non mi rivolgo a lei con rabbia, rischieremmo solo di esplodere a livelli di cui potremmo pentirci l'attimo dopo. Non voglio che succeda, sicuramente non con lei. Ma la pressione ed il timore di essermi davvero giocato tutto mi fa impazzire. Questo lascia risuonare le mie parole di durezza, una che alza appena il volume della mia voce per raggiungere il suo, incurante anch'io adesso di chi potrebbe esserci attorno e sentirci. La razionalità comincia a tremare quanto le mie mani prese dall'agitazione. O da altro. "Non ci sono cascato! La smetti di essere così tragica?" E messo alle strette, comincio a sentirmi cedere. A traballare in quell'incertezza che mi tiene in trappola. Che mi rende anche più pietoso di quanto non abbia già dimostrato. Dinanzi agli attacchi della ragazza, non riesco più a reggere. "Ma è successo solo una volta!" Mento. Come il peggiore dei vermi esistenti sul pianeta, un parassita che risucchia le vite altrui tentando inutilmente di risollevare la propria. E' quello che ho fatto con Roxy e che continuerò a fare se porto avanzi questa farsa di bugie e promesse false. "Non succederà di nuovo! Non è importante." Con sguardo supplichevole, grondante di tentativi d'innocenza che vorrei la intenerissero, nonostante tutto, mi avvicino a lei cercando di annullare le distanze. Provo ad afferrare le sue mani per stringerle tra le mie, per sistemare le cose. "Dai, ti prego. Non hai nulla di cui preoccuparti." Forse, però, non sto facendo altro che calpestare i cocci già rotti di tutte le possibilità che non ho meritato.
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    "Di più!" Ribatto ancora, perdendomi nell'ennesima risata dal fragore più o meno esteso. Un miscuglio di emozioni positive, espressioni trasudanti gioia da ogni poro. Troppa. Ed il peggio è che non si tratta solo di una copertura, di quelle controllate e gestibili con la lucidità che sento mancarmi in questo preciso istante. No, è qualcos'altro. E' un disastro, uno che comincia a palesarsi mentre, avanzando, la stranezza si posa sulla mia esuberanza, non passando inosservata agli occhi attenti della ragazza, capace di riconoscere queste stesse fattezze negli altri, ancor più in me, di cui ormai comprende ogni singola sfumatura. Mossa rischiosa, la mia, ma mi dico di farcela. Mi dico di poterlo controllare. "Allora dille che è la mia... cognata, sì! Cognata preferita!" Annuisco allegramente, prima che un nuovo dettaglio sopraggiunga. "Beh, è anche la prima, insieme a tutti i fratelli Jackson, ma resterebbe comunque la migliore!" Farfuglio. Sono particolari senza senso quelli che mi si arrovellano nel cervello, il frutto di un'iperattività che non trova riscontro nella razionalità, solo un concentrato di parole e pensieri inutili che fanno il loro corso sino alla lingua, pronte a farsi spazio oltre le labbra con la semplicità riconducibile a quella di un bambino sovreccitato. Io lo sono sempre, ma l'anomalia è ormai evidente nei miei gesti, nella rapidità delle mie azioni, movenze, parole. E' tutto... troppo. E, cazzo, sono davvero stupido se penso di poterne venire fuori senza conseguenze. Eppure ci credo fermamente per un po', mentre sistemo con ancora più convinzione gli occhiali da sole sul mio naso. "Nah! Non credo, sono sempre lo stesso!" Dissimulare. Sviarla. Tentativi inutili. Mi sembra già di sentire lo stridere delle dita su superfici specchiate mentre provo a convincere lei - ed in parte anche me stesso - che sia tutto nella norma, che non ci sia niente di strano in me, nei comportamenti come nel sangue che mi scorre nelle vene. Sono sempre il solito coglioncello di strada, coi suoi alti e bassi. E adesso volo a picco verso un cielo di opportunità bellissime. E' proprio ciò che sta succedendo, sì. Lo è. "Dev'essere la lontananza dalla "non più casa mia" ad esaltarmi! Sto bene." Ribadisco. E continuo a farlo, mentalmente e con sguardo vispo ed interessato, mentre lo scetticismo di Roxy aumenta. La sua convinzione scema, trasportandola verso lidi diversi, quelli abbastanza razionali da cogliere la stranezza in qualcosa che rasenta l'anormalità. Un insieme di particolari irregolari, che accendono la consapevolezza della Jackson con prepotenza sempre maggiore. Una che non riesco a combattere neanche mentre l'ansia mi sale sino al cervello, indietreggiando senza successo mentre le sue dita si fiondano sulla montatura delle lenti scure che indosso. "No, aspetta! Che fai? Ferma, non-..." Beccato. Sono in trappola. E per un attimo interminabile, mi sembra quasi di sentirmi morire. Non so cosa abbia davvero il potere di tramortirmi a tal punto. Forse il carico di allarme di cui la sua voce è pregna, le parole deluse che mi sbattono dritto sulla faccia, gli occhi... quello sguardo ferito, che rasenta una preoccupazione che mi fa sentire ignobile. Indegno. Cazzo. "Ma niente! Dai, smettila, non ti agitare." Probabilmente le frasi peggiori da pronunciare ad una donna in preda agli isterismi. Soprattutto se la donna in questione è Roxy. Soprattutto se io so bene che cazzo di guaio ho combinato. "E' una bella giornata, sono felice! Lo eri anche tu, non roviniamola, andiamo." Suppliche pronunciate senza cognizione di causa, la convinzione di avere seriamente il controllo di tutto fittamente ancorata all'anima, mentre allungo le mani verso la ragazza per recuperare gli occhiali. Mi sento scoperto. Guardarla in faccia così è dannatamente difficile. "Ridammeli." Mi allungo, non stupendomi nel vederla non cedere neanche per un secondo. "Rox." Un richiamo arrendevole, mentre con le dita pressate sulle palpebre, già rassegnato all'impossibilità di salvare la situazione, cerco di calmare l'agitazione che sento crescere in me. Una prepotente tachicardia quella che raggiunge il mio petto, non so dirmi se per effetto della pasticca ingerita o per la paura di affrontare questa conversazione. Mi concedo qualche attimo, prima di rivolgermi di nuovo a Roxy, stavolta il tono appena più serio, sebbene agitato per più di un motivo adesso. "Sto bene, va tutto bene. Qual è il problema?"
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    "Stra-vero!" Confermo le sue parole, impossibilitato a battere ciglio. La sua bellezza è un cazzo di dono, la composizione perfetta che Madre Natura si è curata con meticolosità di mettere su, prima di lanciarla dritto nella mia vita per renderla altrettanto bella. Oh, magari fosse davvero così semplice! Ma in questo momento, lo sembra eccome. Lo sembra sempre quando mi è vicino e se anche sia un piccolo sprint d'ausilio chimico ad esagitarmi più del solito, non si tratta che di un sottolineare qualcosa di cui sono già ben consapevole. E' questo il punto, no? Che pericolo può celarsi dietro il solo amplificare delle belle emozioni che già provo? Niente. Posso controllarlo. Andrà bene. "E' il quartiere più figo di Londra solo perché adesso ci vivo io!" Un soffio d'ironia destinato a perdersi pochi secondi dopo, in una pernacchia che smentisca la stronzata appena detta, una risata a coronare quel guizzo di positività estrema, mentre caccio dal taschino della felpa un paio di occhiali da sole da posare prontamente sul naso. "E' proprio una bella giornata, cazzo!" Ribadisco, mentre le braccia si cingono con ancora più interesse attorno ai fianchi della mia Roxy, pronto a guidarla in questo tour dei bassifondi, a respirare un po' d'aria - non necessariamente pulita, a dirla tutta - a pieni polmoni. Vivere normalmente, solo per un po'. "Adesso che ci passi tu, però, diventa più bello di sicuro questo postaccio." Uno slancio affettuoso, accompagnato da un bacio che schiocco con eccitazione sulla sua guancia, la stessa di un bambino che ha appena posato le manine sul giocattolo preferito. E' una metafora più che azzeccata quando si tratta di Roxy. Di noi. Chissà se si è ormai abituata alla mia propensione a queste spropositate effusioni. Tanto siamo liberi, siamo lontani da scuola ed anche lì ormai nessuno dà più retta a noi e a presunti scandali che possano riguardarci, quindi fanculo! Sono felice e posso esserlo quanto mi pare, ovunque mi pare. Con lei. "Davvero? Grande, era ora!" Un'esclamazione pregna d'entusiasmo quella che le rivolgo, una morsa affettuosa quella con cui le mie dita si stringono attorno al tessuto della sua giacca, in un incoraggiamento sincero. Sono davvero felice che la situazione - o parte di essa - che l'ha fatta stare male per mesi interi sia ormai giunta ad una potenziale risoluzione. Le cose non sono mai facili nella vita, ma quando i risultati arrivano è fantastico ed io sono pronto a festeggiare ogni suo successo, perché lo merita. Perché è forte. Lo è da sempre. Più di me. Ed è fierezza quella che provo nei suoi confronti, verso la tenacia con cui non demorde mai, che usa per farsi strada nel mondo arrivando sempre dove vuole. E' ammirevole. Forse le cose sono davvero destinate a migliorare per entrambi, comunque succeda. Ancora mi dico che sì, nonostante tutto, andrà bene. "Te lo dicevo che non avrebbe mai potuto odiare la cugina più figa che si possa avere." Altri baci, un'ondata che si scarica dritto sulle sue guance e sul suo collo, mentre ancora avanziamo per il vialetto del quartiere. Svoltiamo un angolo, cominciando ad affacciarci verso l'aria più urbana del posto. Alcuni pub e cafè si stagliano sul nostro percorso, intrappolati in un panorama che per me sa di casa e che ho voglia valga altrettanto per Roxy. Stiamo insieme da parecchio, no? Quanto cazzo sarebbe entusiasmante decidere di condividere la vita... in ogni senso? Forse sono solo le elucubrazioni di un "cagnolino scodinzolante" ed è l'unico pensiero che mi costringa a mettere a tacere certi pensieri almeno per adesso. Ma non riesco a fare a meno di guardarla, di osservare il suo profilo oltre il vetrino scuro dei miei occhiali, ed immaginare quanto fortunato sarei a poter godere di questa meraviglia per il resto della mia vita. Alla sua supposizione, con il sorriso ancora stampato sulle labbra, rifletto sul mio stato d'animo. Non c'è davvero qualcosa che sia successo. Niente di positivo. Solo un insieme di... omissioni che non ho intenzione di portare a galla. Non in questo preciso istante. Però c'è dell'altro. Qualcosa che mi accende di contentezza a prescindere da ciò che sta mandando i miei elettroni a mille, solo moltiplicato dall'effetto di quel palliativo, ben radicato in realtà nel profondo del mio animo. "Non è successo nulla, però mi sento bene." Confesso sincero, stringendola a me ancora di più. Altro affetto, ancora, mentre alcune briciole di razionalità emergono oltre l'ebrezza "inspiegabile" da cui sono stato colto. "Ho il mio lavoro, la mia casa..." Introduco così quel discorso, offrendole sprazzi di questa nuova realtà che mi fa davvero stare bene. "Ho te." Più ampio il sorriso che curva le mie labbra adesso, conscio di non far altro che associare la mia gioia a lei. Come potrei non farlo? Senza Roxy sono perso. La mia vita lo è. In fondo sono certo che ormai anche lei ne sia consapevole. "Dai, cazzo, cosa potrei chiedere di meglio? E' la mia vita ed è tutto grandioso!" Mi fermo solo adesso nel bel mezzo del marciapiede, afferrandola per entrambi i fianchi prima di attirarla a me in un abbraccio dolce, stretto. I polpastrelli raggiungono il suo volto per carezzarlo, mentre labbra gentili e lievi si posano sulla punta del suo naso. "Sono felice. E poterlo essere insieme è anche più bello."
130 replies since 19/11/2018
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