Olimpiadi Letterarie

Posts written by Fante Scelto

  1. .
    Saluto e ringrazio anch'io, queste Olimpiadi sono state una bella esperienza e una bella sfida. Ci sono stati momenti nei quali awagh.. ooouuuh.. uaaah... onomatopeiche che rappresentano rispettivamente:
    - curiosità seducente di una sfida ostica
    - lettura di un qualche pezzo particolarmente fico
    - sorpresa di fronte a un risultato positivo.

    Cose insomma molto molto intriganti.

    Complimenti a tutti per l'organizzazione, un abbraccio speciale a Mya e Bef per le battaglie finali del deca, e Mya anche per tutta la preparazione del multisfida che è stato parecchio divertente.
    E poi ovviamente Viola che è la mastermind dietro tutto questo. Rimane da capire il suo pianeta di provenienza, perché "aliena decisamente" non è una risposta che soddisfa il requisito.

    Ciaone!
  2. .
    Non ci credo, Aida ha vinto veramente. bc2

    Ci tengo molto a questo personaggio, e sono stracontento che abbia vinto in mezzo a così tanti lavori.
    Grazie davvero.

    E bravi tutti, 102 racconti per soli 18 autori, e che è, Natale?
  3. .
    CITAZIONE (Befana Profana @ 6/12/2017, 23:55) 
    :emoticons%20lavoro%20%2832%29:
    Sei il nostro Leo.
    Oscar, Nobel, Strega, scegli il premio che vuoi. Davvero, hai scritto righe bellissime in queste OL, personalmente sono conquistata.
    Il mio racconto finale era un regalo a me stessa: una sorta di fiaba in cui immaginare il paese che l'Italia potrebbe essere e non è mai stata.
    Il tuo era un miglior racconto e più attinente a genere e traccia.
    Ti avrei dato la vittoria anch'io. :Emoticons%20(203):
    Champagne virtuale e ammirazione autentica.
    Bravo, soldato spaziale! :)

    Grazie davvero.
    Stima contraccambiata.
    :elton:
  4. .
    Awwww, ragazzi/e non so che dire, sono.. sono... beh, insomma, è come Leo che vince l'oscar, alla fine non ci credi, sembra di stare camminando sulle nuvolette rosa.

    No, sul serio, non pensavo che ce l'avrei fatta.
    Bef, quando ho letto il tuo e io stavo ancora arrabattandomi con nomi e date, mi sono freezato e ho pensato "ecco, lei ha avuto l'idea giusta".
    Per cui ero abbastanza sicuro che non ce l'avrei fatta. Il tuo racconto mi è piaciuto molto e mi ha anche emozionato, perché in questo Paese c'è tanto di buono, molto più di quel che sembra, ed è bello aver vissuto questa illusione di un'Italia nel quale le cose sono andate per il verso giusto.
    Pensavo davvero che alla fine l'avresti spuntata.

    CITAZIONE
    Era impensabile che Fante non avesse ancora un oro. Nessuno si offenda, ma per me è la più bella penna che abbia letto in queste OL. Davvero. Bravissimo.

    Tolgo il casco integrale per ringraziarti sinceramente.

    Lo so che sono uno poco comunicativo ma, davvero, stasera mi sono emozionato.

    Grazie a tutti.

    Vorrei prendermi il tempo di leggere tutti i racconti del decathlon e magari votare nell'area segreta, ma il tempo in questo mese è tiranno (siamo a Natale e il popolaccio consumista si scatena!).
    Però ci proverò.
  5. .
    La guerra è finita

    La dottoressa ha un momento di vuoto, di emozione, poi prende un respiro.
    “Ci siamo”, sorride l’assistente, “Salga lassù e spieghi loro com’è andata. Dopo tutti questi anni è giusto fare luce sul passato”.
    Una stretta di mano.
    “Buona fortuna”.
    La donna si alza su gambe malferme per l’età, si avvia sul palco.

    ***


    Gavrilo è teso, nervoso, lo è da quella mattina.
    Osserva tra la folla il convoglio che ha ripreso a muoversi, che avanza, che sta portando gli illustri ospiti verso di lui.
    Scorge l’auto di testa fare manovra.
    Un’occasione perfetta: Gavrilo toglie la pistola dalla cintola, la tiene contro il fianco e comincia a camminare. Accelera il passo, corre spingendo i curiosi, si fa largo, arriva sulla carreggiata, irrompe dietro la decappottabile ferma: ha l’arma tesa e il coraggio dei martiri.
    Qualcuno grida, dei poliziotti scattano, nessuno vicino abbastanza da fermarlo.
    Se qualcosa ferma Gavrilo, per un istante, è solo un barlume di consapevolezza, l’idea di stare compiendo un gesto cruciale: quello è l’attimo nel quale l’uomo sull’auto si volta, allarmato.
    L’attimo nel quale due mondi s’incontrano ai capi opposti di una pistola FN10.
    Un sussulto d’azzurro è la divisa da parata dell’Arciduca, è il cielo di Sarajevo: Gavrilo spara una volta prima di essere atterrato dalla polizia.

    Ultimatum respinto: è guerra.
    “Un pretesto”, Egon getta sul tavolino il giornale, indifferente, accanto alla tazza, “Cercavano un pretesto. A nessuno importa che l’Arciduca viva o muoia: la Serbia è un problema che va risolto, e l’Impero non aspetterà ancora per trovare questa soluzione. Vuoi la mia? Speravano che succedesse. La Mano Nera, gli irredentisti serbi: fesserie. Francesco Ferdinando è stato l’agnello sacrificale per poter distruggere Belgrado”. Pausa. “Sai cosa si dice? Che lui, sì, l’Arciduca, in realtà voglia la pace. Che non gliene importi nulla di distruggere i Balcani, ma che abbia un progetto diverso per quando sarà imperatore: una federazione”.
    Otto annuisce appena. “Ormai è tardi per i progetti: qui sta per scoppiare tutto. La Russia è in mobilitazione generale, presto lo saranno anche Inghilterra e Francia. Magari si combatterà solo fino a Pasqua, ma se qualcosa andasse storto? Se questa guerra sfuggisse di mano?”.
    Egon inspirò a fondo. Preferì non rispondere.

    Rumore cadenzato di vanghe nella terra: migliaia di strumenti al lavoro, migliaia di schiene piegate, di camicie sporche, di volti sudati.
    Henri scava assieme al resto del plotone, i capelli lisci e lunghi gli si incollano alla fronte.
    “Scavare, scavare!”, il capitano incita passeggiando lungo la linea, baffi curati, “I Tedeschi saranno qui a giorni, Dio Santo! Scavare!”.
    Henri scava, senza sosta, mosso da quello stesso spirito combattivo che anima l’intero plotone, tutta la compagnia.
    Intorno a loro, maestosa e grottesca, si allarga un ferita che già molti chiamano la trincea.

    Il plotone marcia da giorni attraverso la campagna belga: poco riposo, poco cibo, tanta smania di battersi, di andare incontro al nemico, di iniziare finalmente questa guerra liberatoria.
    August non sente la stanchezza, o forse non ne prova affatto.
    Ha il fucile in spalla, gli stivali impolverati e il volto sbarbato.
    La colonna di uomini avanza tra i campi di grano e i tulipani, migliaia di elmetti chiodati oscillano nella brezza.
    August ha ancora nello zaino i pennelli e qualche tela, come a Bonn, prima di partire: si eserciterà nei tempi morti, o magari a Parigi, quando le armate del kaiser la raggiungeranno, tra un mese, massimo due.

    Piove a dirotto, la terra s’inzuppa e così il fondo della trincea.
    L’ordine è quello di tenere la posizione, non si può avanzare, non c’è scelta: bisogna scavare, fortificare, trasformare miglia quadrate di campagna in un mattatoio a cielo aperto.
    Henri sta seduto sul fondo del camminamento, il fucile accanto, l’elmetto di traverso.
    Non ha sparato un colpo, non ha visto un Tedesco neppure col binocolo, per mesi, anche se ormai lo scontro è vicino, la madre di tutte le battaglie sta per incominciare. Per ingannare il tempo fa quello che sa fare meglio: toglie dalla saccoccia della creta, la manipola, inizia a darvi forma. Non è come scolpire la pietra, nel suo studio di Parigi, ma è un gesto che lo conforta, gli dona ispirazione.

    Piove, a dirotto, su una terra già brulla che minaccia diventarlo ancora di più.
    August sta a poca distanza da dove si costruiscono le casematte della linea arretrata, dove affluiscono i primi obici e l’artiglieria pesante.
    I Francesi stanno dall’altra parte, ad un miglio appena.
    Le mani fradice sul fucile: vorrebbe dipingere, August, come faceva a Bonn, vorrebbe dipingere quel panorama desolato che il corpo ingegneri sta rendendo ancora più scarno, dipingere per non dimenticare, per dire un giorno guardate cosa ho veduto in guerra, quando la Germania si è conquistata gloria infinita a…
    Fa un cenno verso il commilitone accanto. “Come si chiama qui?”.
    “Qui?”, fa lui sotto lo scrosciare della pioggia sugli elmetti chiodati.
    “Il nome. Dove siamo?”.
    “Verdun”.
    Poche ore, e i cannoni cominceranno a cantare la loro canzone di trionfo.

    La porta dello studio Quadrilatero si apre di schianto: la figura che vi entra, a passo deciso, ha un piglio autoritario e deciso che solo un membro della casa Imperiale può possedere. I ministri in riunione plenaria interrompono di parlare e osservano, attoniti, il fantasma che si è trascinato nella sala, indosso una camicia sotto la quale biancheggia una vistosa fasciatura.
    Francesco Ferdinando ha due occhi che ardono come tizzoni sul volto ampio.
    Persino l’Imperatore, a malincuore, deve voltarsi verso il nuovo venuto.
    “Cessate”, la mano di Ferdinando trema come il suo volto, “Cessate questa follia”.
    Il vecchio Giuseppe d’Asburgo arrossa, la fronte si corruga, pure trattiene l’ira. “Ti sei appena risvegliato, nipote”, commenta con le labbra che si torcono, “Non sei in te: lascia questa riunione per quando sarai in grado di prendervi parte”.
    “Non capite”, l’indice di Ferdinando è un monito, una spada puntata avanti, è la folgore che vive nel suo sguardo alienato. “Non capite?! Avete mandato divisioni contro la Francia, la Russia, avete spedito centinaia di migliaia di uomini verso un massacro!”.
    “Non osare”, i fremiti del vecchio Imperatore crescono di tono come il rossore sul volto, “Contestare le scelte mie e di questo Consiglio. Quando sarai Imperatore, solo allora potrai fare le scelte che riterrai opportune”.
    L’erede al trono ha un gesto inconsulto, trema anch’egli. “Non è questo l’Impero che desidero ereditare! Non uno fatto di macerie e carneficine!”. Il vecchio fa per replicare, lui parla più forte, soverchiandolo come non ha mai fatto, schivo e austero in una vita ai margini della corte. “Richiamate l’esercito! Ritirate le truppe da tutti i fronti! Non passate alla storia per colui che ha causato la fine dell’Austria-Ungheria”.
    Un silenzio infinito.
    Giuseppe d’Asburgo serra i denti, sta per replicare, livido e offeso: la fitta al cuore spezza sul nascere qualsiasi risposta. L’Imperatore si accascia debolmente mentre uomini si alzano per soccorrerlo, fogli cadono in terra, mappe con sopra indicate lunghe linee di terra devastata.
    La concitazione cancella ogni sensazione eccetto quella che Ferdinando prova, affaticato, nel fissare quelle carte che paiono già grondare sangue, lo stesso che ha visto, tempo prima, sulla propria divisa immacolata.
    “È morto”, sussurra debolmente Von Beck chino sul corpo del vecchio Giuseppe.
    L’erede al trono non ascolta: fissa con occhi allucinati i ministri.
    “Fermate questa macchina di morte, prima che sia troppo tardi”. Respiri gravi, la fasciatura che si intride di sangue. “L’Austria deve diventare una federazione governata da un re. La guerra”, il volto madido si colora di una speranza nuova, “Non è la risposta che stiamo cercando”.
    In quegli occhi allucinati appare la figura di un ragazzo, una pistola alzata, un ragazzo serbo che all’ultimo istante, prima di tirare il grilletto, ha capito cosa sarebbe successo.
    Ha sbagliato di proposito il colpo.

    “La guerra è finita!”.
    “La guerre c’est fini!”.
    “Der Krieg ist vorbei!”.
    Soldati si scambiano sorrisi increduli, delusi, amari, o solo sorrisi.
    Trincee si elevano con migliaia di uomini che guardano se stessi, poi le opere d’ingegneria erette per nulla. Gli aerei fermi nei campi di volo. I fucili rimasti in spalla.
    Uomini che sono venuti al fronte per scelta, ispirazione, necessità od obbligo: uomini cui ora viene detto si torna a casa. Il Principe Redivivo ha ordinato la pace.
    L’Austria ha chiesto la fine di tutte le ostilità.
    L’Europa, la Russia, hanno accettato.
    La guerra è finita.
    La guerra non è mai iniziata.

    “Vorticismo?”, Lewis osserva con un sorriso le sculture esposte nel nuovo padiglione del British Museum, “L’arte si allarga verso orizzonti sempre nuovi”.
    “Ed è solo l’inizio”: un giovane artista francese dal bel viso e dal sorriso suadente tende la mano.
    “Come avete detto che vi chiamate?”.
    “Henri Gaudier”.
    Ha una stretta energica.

    August scende dal treno che lo ha portato a Monaco. Ha in testa l’elmetto chiodato e in spalla lo zaino con le tele e i pennelli.
    Non ha un’idea precisa di cosa farà ora, o forse sì.
    Per farsi un nome è presto, ma da qualche parte bisognerà pur iniziare. Lo sguardo gli cade su un ragazzo, giovane, esile, seduto su una delle panche della stazione: ha in mano un foglio dell’esercito ma non indossa alcuna divisa.
    “Ehi”, lo apostrofa, e scorge nei suoi occhi una qualche meraviglia mista a rabbia, “Sei stato rifiutato?”.
    “La guerra è finita”, sibila con sguardo perso, assente.
    “Poco male. Ci sarà qualcos’altro che sai fare”.
    “Dipingere”.
    Un sorriso illumina il bel volto di August. “Davvero?”.
    Assenso.
    “August. August Macke”, gli offre una stretta. “Potremmo lavorare assieme. Non conosco nessuno qui”.
    “Magari”.
    “Ci saranno altre guerre, un giorno, se è quello che vuoi. Fino ad allora, le nostre armi saranno i pennelli, e chissà che non ci passi la voglia di menar le mani”.
    Malvolentieri, il ragazzo si alza.
    “Il tuo nome?”.
    “Adolf”.
    “Molto bene, Adolf. Vediamo che sai fare”.

    ***


    La donna, ormai anziana, sale sul palco tra gli applausi composti della platea. Come ambasciatrice ONU per la cultura, ha speso anni per far luce su un periodo, inizio secolo, rimasto avvolto nella sua stessa torbida ombra.
    Sorride, prima di stendere gli appunti sul leggio.
    C’è stato un uomo, all’epoca, il cui ruolo non è mai stato chiarito. Un ragazzo serbo con una pistola, a Sarajevo. Un principe che ha sfiorato la morte e che è tornato indietro dall’abisso in tempo per prendere le redini dell’Impero: non lo amavano in molti quel principe, anzi, non era benvoluto. Era tetro, si diceva. Schivo e altero.
    Oggi sappiamo che, se è stato evitato un conflitto di proporzioni disastrose, lo dobbiamo a lui.
    La dottoressa Annelies Frank schiarisce la voce, poi inizia a parlare.

    Edited by Fante Scelto - 28/11/2017, 00:25
  6. .
    CITAZIONE (violaliena @ 25/11/2017, 00:07) 
    :Emoticons%20%28239%29: ehm Fante... ti confesso che al giudice non ho passato anche la foto allegata, forse se ci fosse stata...

    Ma no, cambiava niente.
    Avevo previsto la possibilità e puntato comunque sulla googlata di circostanza. ^^
  7. .
    Via, lo posto in versione chic.

    ***



    Sognando Solveig

    “Solveig?”. Stranita, Silvia scrutava sulla soglia: sottili sopracciglia si scossero sorprese. “Scherzi?”, scandì severa, “Sono sciatta, spettinata, senza speranza!”.
    Samuele sorrise sincero. “Sentiti: sei solo scazzata”.
    “Sembro Solveig, secondo signoria sua?”, Silvia sibilò, “Solveig: stangona sublime, straricca, sex symbol?! Smettiamola, su!”.
    Sei splendida, Samuele sottintese sorridendo serafico. “Spopoleresti scordandoti scolorite salopette, scarpe sudice, sciarpine, squallide spille. Saresti… sopraffina!”.
    “Sei serio?! Suvvia, sono scorfana, sgraziata!”, sottolineava Silvia, sconfortata; Samuele, stoico, seguitò sciorinando similitudini sulla sua snella silhouette.
    Sospiri, sguardi sornioni: Silvia si sentì stimata. Sognò segretamente sostituire Solveig, sfilando, stendendosi sulla sabbia, sfoggiando sontuosi swimsuit, scatti su scatti sulla stampa scandalistica.
    Soddisfatto, Samuele salutò.
    Sbagliato svelare sentimenti: Silvia sembrava serena, sicura; sapeva sarebbe stato scorretto sedurla su simili smancerie. Scelse sognarla svestita, scalza sulla spiaggia, sensuale.
    Somigliante, sì: sembrava Solveig, solo senza soldi.



    L'indizio migliore per beccarlo è che ha mancato di poco il podio.....................................
  8. .
    Io posso averne scritto solo uno nella rassegna.
    E visto che sei nota come "La Cecchina" dimmi tu qual è. :emoticons%20lavoro%20%2820%29:
  9. .
    CITAZIONE (MyaMcKenzie @ 24/11/2017, 22:12) 
    Svedesi sbaragliati, siamo salvi... è proprio un sogno :wacko:

    Dillo che ti sei ispirata al mio 5 maggio................ :ph34r:
  10. .
    Quindi, giusto per chiudere il cerchio, la storia non può avvenire nell'immediato fatto avvenuto/mancato e proseguire subito dopo.

    Pe la cronaca avevo pensato proprio a Operazione Valchiria, nell'immediatezza.
  11. .
    CITAZIONE (Befana Profana @ 21/11/2017, 19:52) 
    Io invece ho un altro tipo di domanda: non è che Fante vuole scrivere anche il mio?
    Grossa crisi, l'ucronico, grossissima crisi :Emoticons%20(191): :emoticons%20salute%20(6): :Emoticons%20%28218%29:
    Okay, la smetto con le faccine!

    E' tutta tattica, lo sappiamo....... :P
  12. .

    ***



    Cacciatori di Farfalle

    Grigiore serale, frescura.
    Sbattere d’ali arancio, un volo di farfalla da sinistra a destra, fugace, verso i prati: Vanessa la seguì con gli occhi verso i cespugli di lavanda sfioriti; continuò a camminare lungo la strada, zaino in spalla.
    Il borbottio di un motore diesel, dietro, superò la musica nelle cuffiette; una vecchia Fiat le si affiancò, finestrino abbassato. “Scusa”, un uomo sporse dal posto guida, barba brizzolata, denti acuminati, “Sei sola?”.
    Brivido.
    Vanessa lo guardò per un momento, annuì. Sensazione sgradevole.
    Lui sembrò scrutarla ancora, sporgersi di più verso il sedile passeggero. “C’è uno che ti sta seguendo, laggiù”, si voltò dietro e lei fece lo stesso, nessuno, “Ti do un passaggio?”.
    Scusa già sentita. “No, grazie”. Tirò oltre, nervosa.
    L’auto si mosse affiancandola di nuovo. “Guarda che c’è veramente”, altro guardare dietro, nessuno, “Sali, che ti porto fino al paese”.
    Espirare nervoso. “Vada via”.
    “Ma hai paura? Mica ti prendo”.
    Smartphone estratto brusco, tastiera, “1-1-3”.
    “Vai, va, Cristo”; l’auto accelerò, fumo grigio, sparì oltre la curva.
    Porco.
    Vanessa gettò il telefono nella tasca, riprese a camminare, nervosa.
    Una farfalla danzò intorno e svanì tra aridi cespugli di lavanda.

    Farfalline acerbe / Notti solitarie / Dalla luce consumate / Per ingenua volontà.
    Pagina Facebook richiusa, telefono in tasca. Tancredi Serrano scese dall’auto, si strinse nella giacca di pelle sotto gli sguardi dei pochi presenti: qualche agente della Locale, i coniugi Atalanta, pochi altri. Il freddo della prima mattina.
    “Buongiorno”; gli risposero solo dei mugugni, strinse qualche mano.
    “Allora”, cercò la voce migliore, consapevole che il volto sbarbato e pallido, la statura non eccelsa, dessero tutto fuorché l’impressione d’un poliziotto coi controcazzi. Sguardo all’orologio, “Sono undici ore? Magari una fuga?”.
    “No”, la donna, pallida più di lui, strinse la mano del marito, “No, Vanessa è un angelo, non scapperebbe mai. È successo qualcosa, per forza”.
    Occhiate intorno, la statale, i boschi ingialliti, i declivi delle Prealpi. “Fa questa strada di solito?”.
    “Quando perde l’autobus”, il padre un gesto nervoso, “La fa a piedi. Non è lontano, venti minuti dalla piazzola”.
    Tancredi prese il telefono, scorse un paio di pagine. “Ho guardato il profilo Facebook di Vanessa venendo qui. Ieri sera ha mandato un post”, esibì lo schermo, “Verso le 8. Farfalline acerbe. Forse era per strada. Magari non significa niente, ma leggetelo”.
    Occhi di genitori a scorrere le righe. “Non so, Vanessa odia le farfalle. E la poesia. Non sembra suo”.
    “Capisco”. Pausa. “Specie coi ragazzi”, telefono esibito, “Qui dentro si trovano più risposte che in qualsiasi altro luogo”.
    Silenzio non convinto.
    “Segni sulla strada, un incidente?”.
    Gli agenti scossero il capo, “Niente”.
    “D’accordo. Che i volontari cerchino lungo il costone, per cortesia, e su per il bosco. Io rifarò la tratta”.
    In un silenzio glaciale l’assemblea si sciolse.

    Strada tutta curve, asfalto malconcio.
    I boschi, ai lati della carreggiata, fitti, invasi dalle foglie secche. Una farfalla arancio-nera svolazzò oltre il parabrezza.
    Senso di freddo, il cielo velato oltre le cime sfatte dei castagni.
    “Cazzo”. Qualcuno più avanti, a bordo strada, un uomo che si sbracciava; Tancredi rallentò, fermò la Dodge dietro una Clio nera. Un tocco alla fondina, istinto, prima di smontare. Lo accolse l’odore di resina, poi un più vago aroma di lavanda, inusuale a settembre inoltrato.
    “Bisogno?”.
    “È lei l’ispettore, sì?”, un tale sulla cinquantina, barba sottile, inquieto, “Perdoni il modo”, stretta di mano. “Boero: insegno italiano al liceo giù a Grandove. Vanessa è una mia studente, io… le voglio bene, è brava. So che a volte tarda, perde il bus e non aspetta quello dopo. Glielo dico sempre di non farla a piedi, la sera, che qua su questa strada maledetta passa di tutto!”.
    “Di tutto?”.
    “Ascolti”, Boero alzò due occhi spiritati su di lui, “Vanessa mi aveva detto che già una volta era stata avvicinata, in strada. Io credo si tratti di uno, uno che vive qua intorno, l’ho sentito dire dai ragazzi che è uno strano”. Pausa. “Non sto accusando nessuno, giuro, ma se fosse utile…”.
    Tancredi esitò. Il paesaggio, i boschi, il silenzio degli alberi: inquietudine. “Chi è?”.
    “Non so il nome. Lo vedo passare a volte, credo abiti su a Munzio. Guida una Tempra blu”.
    Annuì appena. “D’accordo, farò controllare”.
    Una farfalla arancio-nera vagò intorno, poi una seconda. Danzarono accanto all’uomo, lui le allontanò con un gesto gentile. “Le Vulcano: sono le ultime a sparire con l’autunno. Le adoro”.
    “Non amo gli insetti”.
    Tancredi fece per muoversi, il docente lo trattenne. “Aveva ragione, prima, alla piazzola”.
    “Intende?”.
    “Facebook. Lì sopra c’è molto di più, per una teenager, che nella sua camera da letto”.

    La Punto della Polizia Locale si fermò a bordo strada: scesero un agente e l’uomo, barba brizzolata.
    “Grazie d’essere venuto, Mori”, Tancredi gli andò incontro, una stretta diffidente: non gli piacque. “È sua l’auto?”, mostrò sul telefono la foto della Tempra, ingrandì la targa.
    “Mia, sì”.
    “E la ragazza? È lei?”.
    Foto di Vanessa. Lui esitò, occhieggiò intorno. “Sì”.
    “L’ha vista in questo punto?”.
    “Esatto. Camminava da sola, qui, vicino al paracarro: mi sembrava pericoloso”.
    “L’ha avvicinata?”.
    “Ho dovuto”.
    “Dovuto?”.
    “Io so cosa pensa lei. Bella minorenne, da soli: NO. Non le ho fatto nulla, non sono stato io”.
    “A fare cosa? Magari non è successo niente”.
    “Invece è sparita, vero? C’era uno che la seguiva ieri sera”.
    Freddo. Scrutò intorno, teso. “Ne è sicuro?”.
    “Cristo, sì. Per questo mi son fermato, per dirglielo: c’è uno che ti segue, ti do uno strappo! Ma lei m’ha mandato a fanculo, voleva chiamare la polizia. Capisce? Uno vuol aiutare e succede questo”.
    “I passaggi in auto sono le scorciatoie dei pedofili: immaginò capirà”.
    L’uomo rise, sgradevole, mettendo in mostra una dentatura affusolata. “Non mi piacciono le ragazzine”.
    “Strano, perché”, alzata di spalle, “Mi risulta un precedente per molestie a suo carico”.
    “Dieci anni fa, Cristo, uno cambia anche nel frattempo. Sa che faccio adesso? Allevo farfalle. Non si prendono denunce per questo”.
    “Me lo auguro”.
    “Senta”, Mori abbassò il tono, sguardo vitreo, “C’era uno che la seguiva. Aveva un giaccone, col cappuccio alzato. La seguiva, come fa l’upupa: sta dietro alla farfallina e poi la prende”.
    I boschi silenziosi.
    Le foglie.
    “E non l’ha visto in faccia?”.
    “No. Si dev’essere nascosto quando ha capito che la avvertivo. Non l’ho più visto”.
    Silenzio carico. “Era questo il punto?”.
    Assenso muto.
    Tancredi cominciò a camminare. Costeggiò il guard-rail, immaginò un passo da ragazzina, quello più veloce d’un uomo dietro le spalle. Scavalcò la barriera. Continuò a camminare tra le foglie, occhi al terreno.
    Si fermò.
    Qualcosa di bianco in terra: raccolse un paio di cuffiette.
    Non l’ha sentito arrivare.
    Un trascinamento, o una lotta: nessun segno tra le foglie.
    Non ha fatto resistenza.
    “Ispettò, che devo fare?”, si lamentò l’agente a bordo strada.
    “State lì”.
    Scese il leggero declivio coperto di vegetali secchi; il freddo del mattino sembrò scavare sul volto, le mani.
    Una farfalla lo superò piroettando tra i tronchi.
    Ma quante ce n’è?
    Scese di più. Il suono dei passi, la pendenza, lo scricchiolare delle foglie; urtò qualcosa, una scarpa bianca: una farfalla che vi era posata prese il volo. Più in là la seconda. Una giacca abbandonata.
    “Cazzo”.
    Le farfalle: cinque, sei, arancio-nere, le Vulcano, a danzare e volteggiare. Avanzò ancora, respiro accelerato; era come se loro lo stessero portando da qualche parte.
    Vanessa odia le farfalle.
    Tolse la Beretta dalla fondina, scartò i rami bassi, giunse al fondo del declivio. Ali colorate, disegnate a pastello, vorticavano intorno in un nugolo variopinto.
    “Dio”.
    Una vecchia tavola di legno adagiata tra le foglie; sul piano il corpo supino, candido, nudo, le braccia spalancate. Occhi vacui. Uno spillone infisso nel petto, attraverso il cuore.
    “Dio”.
    Le farfalle.
    Decine di Vulcano stavano posate sul corpo candido di Vanessa, le ali immobili o mosse in brevi, fugaci battiti.
    “EHI!”, Tancredi diede voce in strada, “QUI, VENITE!”.
    Sentì il tramestio di passi, secondi interminabili perché il poliziotto e Mori lo raggiungessero, guardassero il macabro spettacolo, increduli. “È come”, l’uomo mormorò estasiato, “Una farfalla”.
    Lo spillone nel cuore. Le braccia aperte.
    “L’abbiamo trovata!”, strillò l’agente nella radio, “Sulla statale, dove c’è la volante!”.
    “Lei colleziona farfalle, Mori?”, la voce di Tancredi suonò fredda, un tono più bassa del consueto.
    L’uomo si voltò, staccando gli occhi dallo spettacolo meraviglioso di quel cadavere pallido, nudo, acerbo. “Io non farei mai…”, balbettò.
    Il poliziotto estrasse l’arma, arretrò di un passo. “Stia fermo!”.
    Rumore di auto dalla strada: due volanti, l’auto dei genitori. Una Clio nera.
    “Mi creda”, Mori alzò le mani, attonito, “C’era un uomo che la seguiva ieri sera!”.
    “Stia fermo, cazzo!”.
    Passi di corsa giù dal declivio.
    Tancredi mise i guanti, si avvicinò al corpo: raccolse lo smartphone di Vanessa.
    “Mori, mi faccia vedere il suo telefono”.
    Lui ubbidì, lento, sotto tiro: esibì un vecchio Nokia.
    Il grido di una madre, la donna in ginocchio, l’accorrere degli altri: visi che sbiancano. Boero, il docente, mise le mani al volto. I poliziotti, i volontari: sguardi allibiti.
    “Questo bastardo!”, ringhiò qualcuno, uno spintone verso il Mori col telefono in mano. La madre in lacrime, un malore.
    Le farfalle.
    Vanessa odia le farfalle.
    Tancredi guardava, mente al lavoro, le decine di ali arancio-nere ferme sulla carne candida di lei.
    “L’ultimo messaggio”, scandì come in trance, “Non era di Vanessa. Qualcuno lo ha scritto dal suo telefono. Qualcuno che s’intende di poesia”.
    Il silenzio dei presenti, dei boschi.
    Un odore insolito, un profumo, lo colpì ai sensi. “Mori”, Tancredi un cenno, “Perché le farfalle si comportano in questo modo?”. Insetti fermi sul cadavere. “Lei le alleva, cazzo, cosa attira di solito le Vulcano?!”.
    “La”, deglutire sordo, “La lavanda”.
    Profumo.
    Lavanda.
    Settembre inoltrato: niente fiori. Sapeva dove lo aveva già sentito.
    Tancredi si voltò verso la piccola platea, fissò occhi amari su Boero. “Che profumo usa?”.
    “Banale colonia”.
    Una farfalla gli volteggiò attorno, leggiadra, poi una seconda.
    “Le ha lasciato tracce addosso, dappertutto. Che profumo?”.
    Provence”. Pallore del volto. “Non posso farne a meno”.
    “Lavanda di Francia: un vizio costoso”.
    Boero rimase immobile, tetro, “400 euro a flacone”. I due insetti gli si adagiarono sulla giacca. “Io… la amavo!”.
    “Non credo. Colleziona farfalle, professore?”.
    Il volto di lui si tirò in un sorriso tremulo. “Me ne mancava solo una. La più rara”.
    Vanessa immobile e fredda, le ali aperte, trafitta.
    Notti solitarie
    Dalla luce consumate

    Le Vulcano come gioielli sulla sua pelle bianca.
    Per ingenua volontà.

    ***

  13. .
    A me il tuo racconto è piaciuto molto, l'ho trovato ben costruito e ragionato.
    Anche l'umorismo scelto è calcolato e dosato, al di là dei killer che mandano tutto in cagnara, in effetti la parte più divertente e libera da schemi.

    Alla prossima!
  14. .
    Per inciso, l'ho anche scritto male: è "Hokuto", come ho appreso dopo la mezzanotte. :P
  15. .
    CITAZIONE (MyaMcKenzie @ 7/11/2017, 23:35) 
    Il lato positivo è che almeno uno di noi arriverà in finale!

    Non se i nostri racconti si annullano a vicenda in una catarsi stellata, lasciando campo libero agli altri due semifinalisti.
    Potrebbe anche accadere.
    Mai nessuno che consideri le catarsi stellate.
    Incredibile.
112 replies since 31/8/2017
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